Aleksandr Sergeevic Puskin
Il galletto d'oro
favola in versi - 1834

Chissà
  dove, in un regno lontano,
  proprio ai margini estremi del mondo,
  c'era un tempo Dadon, grande zar.
  Era stato da giovane ardito
  e, terribile, ai regni vicini
  grande offesa talvolta portò,
  ma canuto oramai e spossato,
  dalle guerre volea riposare
  e vecchiezza trascorrere in pace.
  Ecco allor che gli ostili vicini
  preser tosto a recargli molestia
  gravi danni causando al suo regno.
  Per difendere i propri confini
  dagli attacchi dei regni nemici,
  una forte e grandissima armata
  mantenere doveva lo zar.
  I voivodi si davan da fare,
  ma ogni sforzo purtroppo era vano:
  se da sud si attendeva l'attacco
  l'invasore giungeva da oriente,
  quando a ciò si poneva rimedio
  tosto quello attaccava dal mar.
  Zar Dadon dalla rabbia piangeva,
  anche il sonno perduto egli aveva.
  Come vivere in tanto scompiglio!
  Egli allor, per averne l'aiuto,
  si rivolse ad un vecchio sapiente,
  che d'astrologo e mago avea fama,
  con un messo facendogli invito.

Si
  presenta a Dadon il gran saggio
  e da un sacco fa tosto sortire
  un galletto dall'aureo piumaggio
  «Sulla cima d'un palo porrai -
  dice il mago allo zar, - quest'augello;
  il galletto mio d'oro per te
  sarà scolta e vedetta fidata:
  se all'intorno sarà tutto in pace
  zitto e calmo starà l'animale,
  però, appena da alcun si minacci
  a te guerra, ed al regno invasione
  o una qualche sciagura s'appresti,
  tosto all'erta sarà il mio galletto,
  rizzerà l'aurea cresta sul capo
  e con strida e gran battere d'ali
  terrà l'occhio rivolto al nemico.»
  Grato al mago lo zar si professa,
  monti d'oro di dargli promette:
  «Per un tale servigio a me reso, -
  dice, preso da grande entusiasmo, -
  la richiesta che prima farai
  io m'impegno a esaudir come mia.»

Sulla
  cima del palo il galletto
  sta in vedetta e sorveglia i confini.
  Non appena un pericolo insorge
  il fedele guardian si riscuote,
  strepitando con gran batter d'ali
  per far fronte al periglio si volge;
  grida: «Chicchiricchi! puoi regnare
  senza darti pensiero né pena!»
  E i vicini han compreso che ormai
  non v'è alcuna speranza per loro
  dal momento che assai facilmente
  da ogni lato Dadon li respinge!
  Passa un anno, un altr'anno lo segue
  sempre in pace, ed il gallo sta cheto.
  Ma da un grande frastuono una notte
  zar Dadon vien d'un tratto destato:
  «O zar nostro, del popolo padre! –
  un voivoda agitato gli grida, -
  Presto destati, incombe sventura!»
  «Che succede, signori? - domanda
  zar Dadon, sbadigliando assonnato, -
  Chi? da dove? qual è la minaccia?»
  «Il galletto, - risponde il voivoda, -
  va di nuovo facendo gran chiasso,
  è in allarme l'intera città.»
  Zar Dadon si fa tosto al balcone
  e di là vede il gallo sul palo
  che agitato si volge ad oriente.
  Non è tempo di indugi: «Su, presto!
  Gente, in sella! Si faccia in gran fretta!»
  Una schiera ad oriente egli manda
  al comando del figlio maggiore.
  Il galletto è acchetato e si tace,
  c'è silenzio, e lo zar torna a letto.
Son
  trascorsi otto giorni oramai,
  della truppa non s'ha più novella,
  se sia stata impegnata in battaglia
  a Dadon non è dato sapere.
  Ma ecco, ancora il galletto schiamazza.
  Zar Dadon altra schiera raduna
  e l'affida al suo figlio minore
  perché corra in soccorso al fratello;
  tace il gallo, di nuovo tranquillo.
  Ma non giunge qua alcuna notizia!
  Già trascorsi son altri otto giorni;
  tutti vivono in grande apprensione.
  Nuovamente l'allarme dà il gallo;
  lo zar forma altra schiera, la terza,
  e ad oriente la guida egli stesso,
  ma se serva Dadon non lo sa.

Giorno
  e notte l'esercito marcia,
  manca il tempo per sosta o riposo.
  Non v'è traccia di truppa accampata,
  segno alcuno non v'è di battaglia,
  sepoltura non v'è. Lo zar pensa:
  «Quale arcano prodigio è mai questo?»
Sono
  intanto passati otto giorni,
  guida ai monti lo zar la sua truppa;
  quando giungono ai piè delle alture
  ecco, scorge una tenda di seta.
  Tutt'intorno è assoluto silenzio;
  di guerrieri una schiera là giace
  massacrata in ristretto passaggio.
  Zar Dadon alla tenda s'affretta...
  Quale orrenda vision pei suoi occhi!
  Lì distesi, senz'elmo né cotta
  stanno immersi nel sangue i suoi figli
  a vicenda di spada trafitti.
  I cavalli sull'erba del prato,
  calpestata ed intrisa di sangue,
  se ne vanno vagando all'intorno.
  Si dispera lo zar: «Figli! O figli!
  Oh sventura! I miei cari falchetti
  tutti e due nella rete caduti!
  Non mi resta oramai che la morte.»
  Con lo zar tutti gemono forte,
  levan alti lamenti le valli
  ed i monti hanno il cuore che trema.

Ma
  d'un tratto la tenda si schiude,
  ne vien fuori stupenda fanciulla:
  di Samachan la bella regina
  che qual alba radiosa e splendente
  avanzando va incontro allo zar.
  E Dadon, come uccello notturno
  che si trovi al cospetto del sole,
  resta muto, la guarda negli occhi
  e dimentica, a quella visione.
Ecco
  che la regina s'accosta,
  sorridendo a Dadon gli fa inchino,
  poi con grazia gli prende la mano
  e alla tenda conduce lo zar.
  Là sedere lo fa alla sua mensa
  e servire gli fa leccornie.
  Poi lo invita a voler riposare
  in un letto di ricco broccato.
  E Dadon sette giorni trascorre,
  sottomesso del tutto alla donna
  dalla quale è ammaliato e rapito,
  lietamente a far festa con lei.
Finalmente
  intraprende il ritorno
  zar Dadon con l'armata possente,
  ed insieme alla bella fanciulla
  verso casa dirige il cammin.
  Lo precedon nel viaggio le voci
  che raccontano il vero ed il falso.
  Tutto il popolo gli si fa incontro
  di città dalle porte, acclamando;
  tutti quanti van dietro a quel cocchio
  su cui siedono zar e regina.
  Zar Dadon sorridente saluta...
  Tra la folla d'un tratto egli vede,
  con un bianco cappel saraceno
  e la chioma canuta qual cigno,
  proprio il vecchio suo amico, il gran mago.
«Ah,
  salute sia a te, padre mio, -
  gli fa tosto lo zar. - Che mi dici?
  Fatti avanti! Che cosa comandi?»
  «Zar! - risponde quel vecchio sapiente, -
  l'ora è giunta di metterci in pari.
  Pel servigio che un giorno ti ho reso,
  tu a me, come ad amico, hai promesso
  d'esaudir la mia prima richiesta,
  lo  ricordi?, confessa tua fosse.
  Dammi dunque ora quella fanciulla,
  di Samachan la bella regina.»
Stupefatto
  lo zar ne rimane.
  Dice al vecchio: «Che cosa ti prende?
  Sei tu forse del diabolo preda,
  o hai del tutto perduto il cervello?
  Nella testa che cosa ti gira?
  Certo, è vero, promessa t'ho fatto,
  ma c'è un limite a tutte le cose.
  Perché mai la fanciulla tu chiedi?
  Forse ignori con chi stai parlando?
  Tu piuttosto a me puoi domandare
  ch'io ti faccia qui nobile o ricco,
   ch'io metà della mia scuderia
  o metà del mio regno ti doni!»
«Io
  non voglio altra cosa che quella!
  Devi darmi perciò la fanciulla,
   di Samachan la bella regina!»
  dice il mago in risposta allo zar.
  E Dadon sputa; «Ebben, dico no!
  Così nulla da me tu otterrai.
  Da te stesso ti sei rovinato;
  allontanati fin che sei sano;
  via, quel vecchio da qui sia cacciato!»

Il
  vecchietto discuter vorrebbe,
  ma con quello non val ragionare;
  impugnato lo scettro, lo zar
  sulla fronte colpisce il meschino
  che s'accascia e lì l'anima rende.
  La città freme tutta, ma ride
  «Ah, ah, ah... ih, ih, ih!» la regina;
  certo quella non teme a peccare.
  E lo zar, benché alquanto sconvolto,
  le sorride, ammaliato e rapito.
  Ecco, nella città fa il suo ingresso...
Lieve
  un suono si sente improvviso
  e, al cospetto del popolo tutto,
  dal suo palo giù vola il galletto:
  di Dadon contro il cocchio s'avventa,
  dello zar sopra il capo si posa,
  l'ali frulla e colpisce col becco,
  poi s'invola veloce nel cielo...

Cade
  giù tutt'a un tratto dal cocchio
  zar Dadon con un grido, ed è morto.
  La regina di colpo svanisce
  come mai esistita non fosse.
È
  una favola questa, ma attenti!
  Per i giovani è pure lezione.
Traduzione
  dal russo all’italiano
  di Saverio Reggio
Grande risonanza mondiale ebbero due fiabe di Puskin: quella sullo Zar Saltan e quella sul Galletto d'oro, grazie alle opere liriche che ne trasse Nikolaj Rimskij-Korsakov all'inizio del XX secolo, in un'epoca in cui la stilizzazione del folclore russo fu componente non secondaria dell'art nouveau.
Il
  gallo d'oro
  1905
  di Nikolaj Rimskij-Korsakov
Aleksandr Sergeevic Puskin

Aleksandr Sergeevic Puskin nacque a Mosca nel 1799 da una famiglia di piccola ma antichissima nobiltà. Crebbe in un ambiente favorevole alla letteratura: lo zio paterno Vasilij era un poeta, il padre si dilettava di poesia e frequentava letterati di primo piano come Karamzin e Zukovskij. Una casa ricca di libri, soprattutto francesi, che stimolarono le sue precoci letture, ma povero anche di affetti. Nell'infanzia e nell'adolescenza restò affidato, secondo l'uso del tempo, alle cure di precettori francesi e tedeschi, e soprattutto a quelle della 'njanja' Arina Rodionovna, che gli raccontava le antiche fiabe popolari.
Un ambiente sostitutivo della famiglia Puskin lo trovò nel 1812-1817 al liceo di Carskoe Selo. Uscito dal liceo, ottenne un impiego al ministero degli esteri e partecipò intensamente alla vita mondana e letteraria della capitale. A causa di alcuni componimenti 'rivoluzionari' fu confinato nella lontana Ekaterinoslav. Qui si ammalò. Fu ospite della famiglia Raevskij. Seguì poi i Raevskij in un viaggio in Crimea e nel Caucaso, ma alla fine del 1820 dovette raggiungere la nuova sede di Kisinëv (Moldavia). Vi restò fino al 1823, quando ottenne il trasferimento a Odessa. A Odessa visse una vita meno monotona, con due amori: per la dalmata Amalia Riznic, e per la moglie del governatore locale, il conte Voroncov.
Nel 1823, per l'intercettazione di una sua lettera in cui esprimeva idee favorevoli all'ateismo, fu licenziato dalla burocrazia imperiale e costretto a vivere nella tenuta familiare di Michajlovskoe, vicino Pskov. Il forzato isolamento non gli impedì di partecipare alla rivolta decabrista del 1825. Nel 1826 il nuovo zar Nicola II lo chiamò a Mosca per offrirgli un'occasione di ravvedimento. Il perdono era in realtà una sorveglianza ancora più diretta e paralizzante. L'essere sceso a compromesso con il potere gli alienò per di più l'entusiasmo dei giovani. Nel 1830 Puskin sposò la bellissima Natal'ja Goncarova, che gli diede quattro figli ma anche molti dispiaceri per la condotta frivola che alimentava i pettegolezzi di corte. In seguito a uno di questi pettegolezzi, Puskin sfidò a duello il 27 gennaio 1837 il barone francese Georges D'Anthès, a Pietroburgo. Ferito a morte, Puskin spirò due giorni dopo.