Lessico


Orazio
Quinto Orazio Flacco

da Veterum illustrium philosophorum etc. imagines (1685)
di Giovanni Pietro Bellori (Roma 1613-1696)

In latino Quintus Horatius Flaccus. Poeta latino (Venosa 65 aC - Roma 8 aC). Nato ai confini tra l'Apulia e la Lucania (Lucanus an Apulus anceps, Satire), fu educato a Roma per desiderio del padre, un liberto esattore di vendite all'asta, che volle fargli seguire le scuole frequentate dai ricchi. E come i giovani della migliore società romana Orazio, intorno ai vent'anni, fu mandato ad Atene per completare la sua educazione con studi di filosofia e di morale.

Venosa - Cittadina della Basilicata, in provincia di Potenza; è situata a 415 m d’altezza alla sinistra dell’omonima fiumara di Venosa, affluente dell’Ofanto, sulle ultime propaggini orientali del monte Vulture (1.327 m). Le origini di Venosa, la romana Venusia, sono incerte. Sorta comunque nel sito dove già in epoca preistorica si era formato un importante insediamento (lo attesta la vicina necropoli, tra le principali del Paleolitico italiano), la si vuole fondata da genti giunte dalla Tracia. Per la sua posizione, al limite tra Basilicata e Puglia, gli stessi antichi romani – tra cui il grande poeta Quinto Orazio Flacco, cui diede i natali – la ritenevano alternativamente centro dei Peucezi o dei Dauni, passato poi ai Sanniti. Fu conquistata da Roma nel III secolo aC, ma crebbe d’importanza attorno al 190 aC, quando fu collegata alla capitale mediante la via Appia. Nel Medioevo Venosa visse un alternarsi continuo di dominazioni, iniziato con la sudditanza al longobardo ducato di Benevento, cui seguirono i bizantini; furono però i Normanni, nell’XI secolo, a lasciare ampie testimonianze architettoniche. Ancora si ebbero i passaggi di potere tra Svevi, Angioini, Aragonesi; a partire dal XV secolo la città fu soggetta a feudatari locali.

Con l'uccisione di Cesare e la fuga in Grecia di Bruto, Orazio, entusiasta sostenitore della causa repubblicana, si schierò dalla parte di Bruto e col grado di tribuno militare partecipò alla battaglia di Filippi (42 aC) contro Ottaviano e Antonio rimanendo travolto dalla disfatta. Solo quando fu concessa l'amnistia poté tornare a Roma (forse 39 aC) dove intanto il padre era morto e le poche terre erano state confiscate. Si adattò a fare lo scrivano presso un questore e le ristrettezze economiche – come confessa lui stesso – lo spinsero a poetare. Scrisse delle satire e dei giambi, si accostò alla filosofia epicurea; entrò in contatto con Virgilio e Vario e fu introdotto da loro presso Mecenate (38 aC), di cui divenne a poco a poco intimo amico.

Filippi - In greco Phílippoi, in latino Philippi. Antica città della Tracia, 16 km a NW della città greca di Kavála. Sorgeva sul luogo di un'antica colonia di Taso, Crenide, che, minacciata dai Traci, si rivolse per aiuto a Filippo II di Macedonia. Questi sconfisse i Traci e ottenne la cessione dell'intero territorio occidentale a partire dal fiume Nesto; la città prese allora dal re il nome di Filippi (358-357 aC) e divenne il centro più importante della zona aurifera del Pangeo. Dopo la famosa battaglia la città divenne colonia romana. Nei pressi di Filippi, nell'autunno del 42 aC, si combatté in due riprese una delle più celebri battaglie dell'antichità: quella che oppose i triumviri Ottaviano e Antonio agli uccisori di Cesare, Bruto e Cassio, e si risolse con la sconfitta di questi ultimi. In riferimento alla battaglia è divenuto celebre l'ammonimento «ci rivedremo a Filippi», che, secondo il racconto di Plutarco (Bruto, 36), sarebbe stato rivolto a Bruto dal suo cattivo genio, apparsogli in sogno per preannunciargli l'imminente sconfitta. La frase è entrata poi nel linguaggio comune per alludere al momento della resa dei conti.

L'anno seguente era nel gruppo degli amici che accompagnarono Mecenate a Brindisi per un tentativo di riconciliazione fra Antonio e Ottaviano. Da Mecenate ebbe anche in dono una villa nella campagna sabina. Si appagava così il suo sogno di libertà, di indipendenza e di quiete. Là, non molto lontano dalla capitale, che continuava a frequentare, visse la maggior parte del tempo, resistendo anche agli inviti allettanti di Augusto.

Verso il 35 pubblicava il primo libro delle Satire; nel 30 usciva il secondo e iniziava la composizione, del tutto diversa, delle Odi. Nel 23 venivano pubblicati i primi tre libri di questi carmi lirici; poi il poeta tornava ai metri e in parte ai temi delle Satire con un libro di Epistole, compiuto verso il 20.

Nel 17, celebrandosi i giochi secolari, Orazio fu incaricato da Augusto di comporre l'inno ufficiale (Carmen saeculare); seguiva un quarto libro di odi e un secondo di epistole. Morì pochi mesi dopo Mecenate, e accanto a Mecenate fu sepolto sull'Esquilino.

Orazio stesso ci fornisce un ritratto di sé: piccolo e un po' obeso, occhi scuri e calvizie precoce; facile all'ira, sentiva anche molto gli affetti. Quello di Orazio fu un tempo di grandi sconvolgimenti politici e sociali: vide il tramonto della Repubblica e l'affermarsi dell'Impero. Anche per l'intellettuale, morti gli ideali e le norme di vita dettate dalla romanità arcaica, si faceva forte la tentazione d'inserirsi nel nuovo sistema politico; tanto più che Augusto e il suo ministro Mecenate conducevano un'abile politica di accaparramento delle forze intellettuali, orientate, piuttosto di istinto, verso gli ideali repubblicani incarnati con grande prestigio da Bruto.

Quella di Orazio, dunque, fu anzitutto la ricerca di una posizione che gli garantisse un'autonomia pratica e psicologica. Ebbe la fortuna d'incontrare un amico potente e intelligente come Mecenate, che gli assicurò un equo benessere materiale e rispettò la sua libertà. Ma fondamentale fu anche l'adesione di Orazio alla filosofia epicurea, che allora attraeva del resto in modo particolare i giovani colti di Roma, col suo insegnamento di un sano materialismo, di un giusto equilibrio interiore. Orazio si professa egli stesso epicureo, e da tutta la sua opera traspare la filosofia di Epicuro, anche se non mancano taluni passaggi o certe posizioni che pure risentono del più robusto verbo stoico, inevitabile in un cittadino romano.

Ma tanta riservatezza nella vita non ha stranamente riscontro nella produzione poetica di Orazio. Egli è anzi uno degli scrittori dell'antichità che più hanno parlato di se stesso: anche se poi il nucleo finale, l'intima sua natura finisce pur sempre per sfuggirci nei vari momenti della sua produzione poetica, che procede di pari passo con un affinamento estetico ma anche intellettuale e morale.

Le prime due raccolte poetiche, degli Epodi o Giambi (17) e delle Satire (2 libri, di 10 e 8 componimenti) datano dal 41 al 30; materia e tono risultano affini, anche se più crudi nei primi. Sono il momento giovanile, a volte un po' rigido, ma già confidenziale, della poesia oraziana; danno un quadro vivo della città e accennano ad alcune circostanze fondamentali dell'esistenza del poeta, quali l'educazione ricevuta dal padre, lo svolgimento dei rapporti con Mecenate, problemi letterari e filosofici; ed è già chiaro il tentativo di affinare anche stilisticamente il genere letterario della satira, tipicamente romano.

da Veterum illustrium philosophorum etc. imagines (1685)
di Giovanni Pietro Bellori (Roma 1613-1696)

Se le Satire (Sermones li chiama il poeta) sono un'opera carica di simpatia umana, le Odi (Carmina, 103 poesie in metro vario) presentano il momento più alto dell'ispirazione poetica di Orazio. La vita dello scrittore ancora si presenta in molti scorci; molti carmi sono dettati da circostanze esteriori, ma l'interesse del poeta e del lettore va al modo nuovo di far poesia in Roma, a cui queste composizioni ci fanno assistere. Qui, l'aspirazione di Orazio è quella di rivaleggiare con i grandi lirici della Grecia arcaica (Alceo, Saffo, Anacreonte, Pindaro) o alessandrina. E certo il rischio di un lavoro puramente letterario qua e là è evidente in componimenti fin troppo eleganti e freddi. Più spesso, Orazio ritrova nella perfezione stilistica e nella plasticità fantastica il corrispettivo della sua visione dell'esistenza: con le regole della vita schiva, del godimento dei piccoli ma sostanziosi piaceri d'ogni giornata (il carpe diem), del culto del bello, dell'affinamento spirituale, dell'importanza dell'amore, dell'amicizia, della ricerca di un equilibrio interiore.

Perciò l'adeguamento forma-contenuto appare spontaneo, e ne nascono le più alte liriche di tutta la letteratura latina. Persino la tematica patriottica, o addirittura l'ideologia augustea e la restaurazione di valori civili trovano espressione adeguata in questa raccolta (soprattutto nel gruppo di liriche all'inizio del libro III, e nel Carmen saeculare).

Il passaggio dalle odi alle epistole (23 componimenti) è ancora brusco nella forma; ma la disposizione verso la vita e verso gli uomini è più comprensiva, affinata dalla grande esperienza dei Carmina e da riflessioni estetiche testimoniate anche nella terza lettera del II libro, quella celebre detta Ars poetica. La chiusura del ciclo poetico di Orazio con questa raccolta mostra la perfetta costanza di una vita esemplare: esemplare per esperienza di poeta ed esemplare per esperienza umana.

Raramente si trova in uno scrittore una compenetrazione così intensa dei motivi esistenziali e della produzione letteraria, che si fa autentica autobiografia e insegnamento. Si sono rimproverati a Orazio soprattutto l'atteggiamento in sostanza rinunciatario verso gli impegni dell'azione, gli splendori formali senza forti contenuti. Ma certo il poeta rispecchiava un diffuso stato d'animo, in momenti di travaglio politico, di delusioni e di speranze nuove; ed è proprio questo misto di scetticismo e di sensibilità verso le promesse che il programma augusteo faceva brillare, dopo decenni di guerre civili, a costituire il valore anche storico della poesia civile di Orazio.

Ma è soprattutto la complessa e sfuggente personalità del poeta e l'eleganza della sua poesia ad aver affascinato nei secoli i lettori. Particolarmente sensibile fu l'entusiasmo per gli scritti oraziani nel corso dei sec. XVII e XVIII, con ripresa dei suoi temi e dei suoi metri nelle lingue moderne.

Horace

Quintus Horatius Flaccus, (Venusia, December 8, 65 BC – Rome, November 27, 8 BC), known in the English-speaking world as Horace, was the leading Roman lyric poet during the time of Augustus. Born in the small town of Venusia in the border region between Apulia and Lucania, Horace was the son of a freed slave, who owned a small farm in Venusia, and later moved to Rome to work as a coactor (a middleman between buyers and sellers at auctions, receiving 1% of the purchase price from each for his services). The elder Horace was able to spend considerable money on his son's education, accompanying him first to Rome for his primary education, and then sending him to Athens to study Greek and philosophy. The poet later expressed his gratitude in a tribute to his father: If my character is flawed by a few minor faults, but is otherwise decent and moral, if you can point out only a few scattered blemishes on an otherwise immaculate surface, if no one can accuse me of greed, or of prurience, or of profligacy, if I live a virtuous life, free of defilement (pardon, for a moment, my self-praise), and if I am to my friends a good friend, my father deserves all the credit... As it is now, he deserves from me unstinting gratitude and praise. I could never be ashamed of such a father, nor do I feel any need, as many people do, to apologize for being a freedman's son. Satires 1.6.65–92.

After the assassination of Julius Caesar, Horace joined the army, serving under the generalship of Brutus. He fought as a staff officer (tribunus militum) in the Battle of Philippi. Alluding to famous literary models, he later claimed that he saved himself by throwing away his shield and fleeing. When an amnesty was declared for those who had fought against the victorious Octavian (later Augustus), Horace returned to Italy, only to find his estate confiscated; his father likely having died by then. Horace claims that he was reduced to poverty. Nevertheless, he had the means to gain a profitable lifetime appointment as a scriba quaestorius, an official of the Treasury, which allowed him to practice his poetic art.

Horace was a member of a literary circle that included Virgil and Lucius Varius Rufus, who introduced him to Maecenas, friend and confidant of Augustus. Maecenas became his patron and close friend and presented Horace with an estate near Tibur in the Sabine Hills (contemporary Tivoli). He died in Rome a few months after the death of Maecenas at age 57. Upon his death bed, having no heirs, Horace relinquished his farm to his friend, the emperor Augustus, for imperial needs and it stands today as a spot of pilgrimage for his admirers.

Horace is generally considered to be one of the greatest Latin poets. Several of his poetry's main themes, such as the beatus ille (an apraisal of simple life) and carpe diem (literally "pluck the day", more commonly used in English as "seize the day", but used by Horace to mean live the moment, an encouragement to enjoy youth) were recovered during the late Middle Ages and the Renaissance, influencing poets such as Petrarca and Dante. However, those themes were not truly retaken till the 16th century, when the renaissance culture and its admiration towards Roman and Greek antiquity was solidly established. In that sense, the influence of Horace can be traced in the works of poets such as Garcilaso de la Vega, Juan Boscán, Torquato Tasso, Pierre de Ronsard and especially in Fray Luis de León. The latter wrote some of the most remarkable "Odes" dealing with the beatus ille precepts. Besides, several latter poets such as Shakespeare and Quevedo were heavily influenced by Horace's poetry. Moreover, his work Ars Poetica remained as a canonical guide for composing poetry till the end of romanticism, and it was known and studied by most wordsmiths; even though its precepts were not always thoroughly followed, it hold an unpaired prestige when it came to deal with the form, wording and setting of any poem, play or prose work, and its influenced can be traced well into the works of playwrights and writers such as Lope de Vega, Henry Fielding, Calderón de la Barca, Pierre Corneille, Samuel Johnson, Goethe, Voltaire or Diderot.

Apart from carpe diem, Horace is also known for having coined many other Latin phrases that remain in use today, whether in Latin or translation, including Dulce et decorum est pro patria mori (It is sweet and fitting to die for one's country), Nunc est bibendum (Now we must drink), and aurea mediocritas ("golden mean."). Horace also forms the basis for the character Quintus Horatius Flaccus in the Oxford Latin Course, a Latin textbook for secondary students; the books loosely follow his life.
His works, like those of all but the earliest Latin poets, are written in Greek metres, ranging from the hexameters which were relatively easy to adapt into Latin to the more complex measures used in the Odes, such as alcaics and sapphics, which were sometimes a difficult fit for Latin structure and syntax.

The works of Horace are

Odes (or Carmina) (23-13 BC)
Epodes (30 BC)
Satires (35 and 20 BC)
Ars Poetica, or The Epistle to the Pisones (18 BC)
Epistles (20 and 14 BC)
Carmen Saeculare (17 BC)