Vol. 1° -  VIII.2.6.b.

Gallina, - ae, f

Femminile sostantivato di un aggettivo in -inus.

Classificazione

Plinio ricorda alcune razze selezionate per il combattimento: il pollo di Rodi, di Calcide, di Tànagra, la razza Melica o Medica

Iam ex his quidam ad bella tantum et proelia adsidua nascuntur - quibus etiam patrias nobilitarunt, Rhodum aut Tanagram; secundus est honos habitus Melicis et Chalcidicis - ut plane dignae aliti tantum honoris perhibeat Romana purpura. (X,48)

Adesso fra questi [i galli] alcuni esemplari nascono soltanto per continue lotte e combattimenti - grazie ai quali hanno anche reso famosa la loro patria, Rodi o Tànagra; il secondo posto è stato dato a quelli della Media e di Calcide - cosicché i porporati romani rendono tanto onore a un uccello del tutto meritevole.

Il nostrum vernaculum (genus) di Columella (VIII,2,5) che dalla descrizione pare essere la razza domestica Padovana, è stato osservato da Plinio [1] ? Leggiamo la seguente nota di Plinio:

Gallinarum generositas spectatur crista erecta, interim et gemina, pinnis nigris, ore rubicundo, digitis imparibus, aliquando et super IIII digitos traverso uno. Ad rem divinam luteo rostro pedibusque purae non videntur, ad opertanea sacra nigrae. Est et pumilionum genus non sterile in his, quod non in alio genere alitum, sed quibus centra, fecunditas rara et incubatio ovis noxia. (X,156)

La buona razza delle galline si riconosce dalla cresta eretta, talvolta anche doppia, dalle piume nere, dalla faccia rossa, dalle dita di differente lunghezza, e talvolta anche dalla presenza di un dito disposto obliquamente oltre agli altri quattro. Per i servizi divini non sono ritenute incontaminate quelle con becco e zampe gialli, quelle nere sono adatte per i riti misterici. Fra queste vi è anche una razza di galline nane non sterile, non presente in altre specie di volatili, ma le galline dotate di speroni sono raramente feconde e il loro covare è nocivo alle uova.


Dalle osservazioni pliniane contenute nel brano appena citato, risultano quattro razze:

1 - gallina pinnis nigris ore rubicundo - gallina dalle penne nere e dalla faccia rubiconda
2 - gallina luteo rostro pedibusque - gallina dal becco e dai tarsi gialli
3 - nigrae - nere
4 - pumilionum genus - razze nane

La prima razza non ci è descritta sufficientemente, soprattutto se la nota è comparata con i precetti di Varrone (III,9,4):

...eligat oportet fecundas, plerumque rubicunda pluma, nigris pinnis, imparibus digitis, magnis capitibus, crista erecta, amplas.

...è necessario che scelga quelle feconde, con le piume per lo più rosse, le penne nere, le dita impari, la testa grande, la cresta eretta e che siano corpulente.

e di Columella (VIII,2,6-8):

Eae [aves] sint rubicundae vel infuscae plumae, nigrisque pinnis: ac si fieri poterit, omnes huius, et ab hoc proximi coloris eligantur[...] Sint ergo matrices robii coloris, quadratae, pectorosae, magnis capitibus, rectis rutilisque cristulis, albis auribus, et sub hac specie quam amplissimae, nec paribus ungulis: generosissimaeque creduntur, quae quinos habent digitos, sed ita ne cruribus emineant transversa calcaria.

Questi polli debbono avere piume rosse o nerastre, e le penne nere: e se possibile vengano scelti tutti di questo colore o di un colore molto simile[...] Le riproduttrici siano dunque di colore rosso scuro, tarchiate, posseggano un petto largo, la testa grande, la piccola cresta dritta e rosso splendente, gli orecchioni bianchi, e sotto questo aspetto li abbiano quanto più grandi possibile, e abbiano le dita non pari: sono ritenute molto fertili quelle con cinque dita, ma non debbono avere speroni che sporgano di traverso sulle gambe.


L'insufficienza dell'osservazione di Plinio ha anche i suoi motivi nella lezione tradita ore, di cui il Saint-Denis dubita, domandandosi: “Ore rubicundo devrait-il être corrigé en colore rubicundo? Varron et Columelle parlent de plumage roux et d'ailes noires: rubicunda pluma, nigris pennis.”

Il dubbio dello studioso francese è anche il nostro, sicché leggeremmo colore rubicundo, riferito al piumaggio del collo, groppone, scapolari, tanto più che Columella espressamente dice delle matrices: sint...robii coloris.

Nel testo di Plinio, come in quello di altri autori, notiamo come siano state significate le principali mutazioni nelle diverse parti del corpo dei Polli domestici, mutazioni che, variamente aggruppate, formano caratteri di differenziazione di ciascuna razza.

Osserviamo, infatti, nella N.H., la mutazione della cresta a coppa, che è una bipartizione longitudinale della cresta semplice, la presenza di un quinto dito, che è da considerarsi un prealluce e possiede, quando la mutazione ha raggiunto il massimo sviluppo, un metatarsale indipendente da quello dell'alluce ed un maggior numero di falangi. Nei Polli, le dita sono generalmente quattro: tre disposte in avanti, l’alluce indietro. Si può, quindi, intendere con l’espressione digitis imparibus o le tre dita disposte in avanti senza l’alluce, che, attualmente, manca in parecchie specie, o le cinque dita, sovra ricordate.

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Spero che Capponi con la parola specie voglia intendere specie di Uccelli. Lascio a voi il piacere di ricercare gli uccelli con sole tre dita. A titolo d’esempio voglio ricordare il Picchio tridattilo, Picoides tridactylus, così chiamato perché possiede soltanto tre dita, di cui due rivolte in avanti e uno all'indietro. Ho chiesto a Edmund Hoffmann se abbia per caso notizia dell’esistenza di polli con 3 dita, ma la sua risposta è stata negativa; ciò è confortato anche dalla mancanza della tridattilia nell’attuale lista delle anomalie genetiche dello scheletro del pollo. Ovviamente non si può escludere l’esistenza in passato di questa mutazione, e che poi sia andata persa come accade per parecchie mutazioni.

Esiste tuttavia la possibilità di interpretare in altro modo il testo latino, in quanto l’aggettivo inpar, o impar, può anche avere il significato posseduto da dispar - attenzione però che dispar significa disuguale, differente, dissimile, diverso, circa la qualità o la natura di una cosa - per cui l’italiano dispari viene reso in latino con inpar.

Però inpar oltre a dispari cioè disuguale, o meglio, non pari rispetto al numero, può anche significare disuguale rispetto alla lunghezza. Per cui un pollo di prima qualità deve avere le dita di lunghezza diversa l’una dall’altra.

In sintesi, essendo per ora noto solamente un tipo di pollo con tre dita - descritto nel prossimo paragrafo - mentre le anomalie delle dita delle zampe è arcinota, si può pensare che Plinio alluda a qualcosa come l’osteodistrofia ungueale, così battezzata da Hutt, che nei casi più severi determina anormalità a carico di tutte le dita, sia per le unghie che per le falangi. Non è il momento di dilungarci su questo punto che verrà trattato nella genetica speciale.

Il pollo con tre dita potrebbe essere esistito, ma doveva essere tutt’altro che un appartenente al genere Gallus. Si tratta del Gallus Indicus auritus tridactilus - Gallo Indiano orecchiuto tridattilo - che apre il capitolo IX del XIV libro del II volume dell’Ornitologia dell’Aldrovandi, dedicato ai peregrinis quibusdam gallinaceis, in cui Ulisse raccoglie tutto ciò che non gli sembra degno di far parte della famiglia dei polli comunemente intesi.

Fig. VIII. 25 - Gallus Indicus auritus tridactylus di Aldrovandi
alias
un novello basilisco del Marchese Cesare Facchinetti
dotato non di 9 penne alla coda, bensì 6, pari alla somma delle dita.

A sinistra - immagine rielaborata contenuta nell'edizione del 1600
A destra - immagine colorata elettronicamente da Fernando Civardi

   

Aldrovandi - non sappiamo perché – candidamente afferma: Secunda cauda novem longissimis pennis constat, quarum aliae aliis longiores sunt, et diversum colorem obtinent. La seconda coda è costituita da nove penne molto lunghe, delle quali alcune sono più lunghe delle altre e hanno un colore diverso. § La scoperta di questo palese errore di Aldrovandi, che va a tenere debita compagnia alla miriade d'inesattezze che continua a elargirci, non è mia, bensì di Fernando Civardi. Fernando non si accorse di questo errore quando nel 1996 trascrisse il testo latino, bensì quando nel marzo 2008 fu da me incaricato di mettere a dura prova le sue doti di peintre électronique nel colorare in base al testo quest'uccello che è fantastico al 99,99%, non essendo stato in grado di identificarlo neppure il Dr Giovanni Boano, Direttore del Museo Civico di Storia Naturale di Carmagnola (TO). Confesso che nemmeno durante la traduzione mi accorsi delle false 9 penne, per cui il merito della scoperta è tutto di Fernando. Come suggeritomi dal collega Dr Leslye Haslam, esiste una possibilità per salvare Aldrovandi: affermare cioè che le 3 penne fantasma sono nascoste dietro alle altre 6. A suo giudizio quest'affermazione salvifica potrebbe uscire ex abrupto dalla candida bocca - ma non dal sublime cervello - di sua moglie Livia Marchioni qualora ne venisse messa al corrente, essendo Livia una bolognese doc, bolognese di nascita e di stirpe, che purtroppo continuo a tartassare quando incappo in un imperdonabile errore del suo illustre concittadino.

Il fenotipo del Gallus Indicus auritus tridactylus non ha bisogno di particolari commenti, in quanto salta subito all’occhio il suo becco da pappagallo, la barba da capretta e uno sguardo da diavolo birichino. Aldrovandi non ha fatto altro che riprodurre e descrivere l'icona avuta dal Marchese Cesare Facchinetti [2] , un tempo Senatore a Bologna. Effettivamente la zampa di quest’uccello ha tre dita ed è fornita di sperone. Circa il suo habitat nulla è dato sapere. Sappiamo solo che era indiano, probabilmente amerindo, visto che altri gallinacei descritti da Aldrovandi nelle pagine seguenti come indiani erano del Sudamerica. Ma, come abbiamo appena visto, grazie al Dr Giovanni Boano a marzo 2008 abbiamo assodato trattarsi di una bufala, essendo pari allo 0,01 % la possibilità che un uccello siffatto sia realmente esistito, così come il fantasmagorico basilisco.

Del mio stesso parere circa l’interpretazione da dare al passo di Plinio in cui egli parla di digitis imparibus, è l’Aldrovandi, che nel paragrafo Forma et Descriptio così si esprime:

Caeteras partes cum aliis plerisque avibus communes habent: Siquidem quod Plinius Gallinas probet imparibus digitis, id non de numero dicere voluisse videri posset, sed quod non debeant aeque longi esse...

I polli hanno le rimanenti parti anatomiche accomunabili a quelle della maggior parte degli altri uccelli: dal momento che Plinio apprezza le galline dalle dita impari, potrebbe essere giusta l’interpretazione che egli non abbia voluto riferirsi al loro numero, quanto piuttosto al fatto che non debbono essere della stessa lunghezza...

Per inciso, e come aperitivo di una polemica che si aprirà tra poco, voglio far notare che Lind traduce probet con shows  - cioè dimostrare, mostrare anziché apprezzare, approvare o simili - ma Plinio non vuol dimostrare un bel niente: dice solamente che le galline con le dita fatte come Dio comanda, non tarate geneticamente, sono da preferirsi alle altre. Plinio vuole così suggerire agli Allevatori di guardare anche le zampe dei polli prima di acquistarli, come si guarda in bocca ai cavalli.

La frase completa di Lind è la seguente:

«If Pliny shows that hens have unequal toes he probably meant this to apply not to the number but to length...»

  (Aldrovandi on Chickens, 1963, pagina 43)

Il verbo inglese to show non ha altri significati se non quello di dimostrare, mettere in mostra, esibire eccetera. Non assume mai il significato di apprezzare, lodare e simili, come si verifica per il latino probare che solo in seconda istanza ha il significato posseduto da to show.

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Il colore primitivo dei tarsi e delle dita è nero: il colore giallo, altra mutazione, caratterizza, pure una razza o sottorazza. Carattere strutturale e, quindi, ereditario, come ogni altra mutazione, è il nanismo. Ed, infine, Plinio afferma come gli sproni, che non sono presenti in tutte le razze, siano di danno all'incubazione.

Nei Polli domestici sono notevoli le mutazioni di colore. Se è lecita la lezione congetturale: colore rubicundo, Plinio avrebbe descritto il mantello variopinto, che noi, oggi, chiamiamo dorato; questa è la livrea corrispondente al Pollo selvatico. Le nigrae, invece, presentano un mantello uniforme.

Deposizione e Cova

Le Galline, che tra gli uccelli, depongono, come gli Struzzi e le Pernici, il maggior numero di uova, s'accoppiano e depongono in ogni tempo, eccetto i due mesi del solstizio d'inverno. Questa nota è di Aristotele, il quale aggiunge che certe galline, anche di razza, depongono, prima di covare, una grande quantità di uova, sino a sessanta. Distingue, poi, le galline di razza da quelle comuni: le prime non sono buone ovaiole come le seconde. Le galline di Hadria, di taglia piccola, dal mantello variopinto, depongono tutti i giorni; di indole, però, cattiva, uccidono spesso i loro pulcini. Il filosofo, inoltre, ci informa che certe Galline domestiche depongono sino a due uova per giorno, ma l’abbondante deposizione è causa di una rapida morte.

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Bisogna aprire una parentesi e interrompere il fluire del discorso di Capponi, in quanto non passa giorno che non accada d’imbattersi in strane illazioni, il cui esempio più cocente verrà affrontato quando parleremo dei polli dell’Isola di Pasqua. Sono sempre più convinto che l’interpretazione delle cose del passato debbono basarsi sul testo nel quale vengono narrate. È troppo frequente una libera traduzione o, peggio ancora, il mettere in bocca ad altri cose che essi non hanno mai dette, forse neppure pensate.

Secondo Elena Giannarelli, che ha stilato le note al testo di Plinio - Einaudi, 1983 - non è possibile distinguere se la patria delle galline di Hadria sia Adria del Piceno o Adria nel Veneto. Plinio ne parla in modo telegrafico: Hadrianis laus maxima.

Adria del Piceno corrisponde all’odierna Atri, in provincia di Teramo, di origine preromana, che veniva detta dai Romani Hatria, Hadria, Adria, importante centro commerciale cui facevano capo le antiche vie Cecilia e Valeria. Adria fu occupata dai Romani nel 289 aC e, contrariamente ad altre città del Piceno, vi si coniavano monete prima della dominazione romana; ciò testimonierebbe la sua importanza commerciale. Di Adria si conoscono tutti i sottomultipli dell’asse, aventi sul diritto o sul rovescio la leggenda HAT, in quanto appunto veniva anche chiamata Hatria dai Romani. L’asse, che era detto aes grave, fu l’unità monetaria introdotta da Servio Tullio, del peso di una libbra. L’antica libbra romana era pari a 272,88 grammi.

Dal Dizionario di toponomastica della UTET: Atri è l’antica Hadria di Plinio Nat. Hist. III,110 (Hadria colonia) e di Livio XXIV 10,10. Si trova anche con la grafia Hatria. Per l’etimologia, l’interpretazione più probabile, secondo Aleddio-De Giovanni (1983), è quella che si rifà a una base preromana connessa col latino ater, nero, scuro, o all’umbro atru.

Adria nel Veneto, in provincia di Rovigo, nei tempi antichi fu porto assai attivo sull'Adriatico, e a questo mare presumibilmente diede il nome. Fondata dai Veneti, fu emporio commerciale prima greco, poi etrusco, quindi fiorente municipio romano denominato Atria.

Dal Dizionario di toponomastica della UTET: le attestazioni antiche riguardanti il toponimo, oscillante fra Atria  ed (H)adria, sono molto numerose. Ad esempio:

Strabone V,1,8: Ἀτρία – Atría.  
Livio V,33,7: ab (H)adria Tuscorum colonia altra versione: ab Hatria, Tuscorum colonia. 
Plinio Nat. Hist. III,120: oppidi Tuscorum Atriae, a quo Atriaticum mare ante appellabatur quod nunc Hadriaticum.

Quanto all’origine del nome, si è voluto trovare la giustificazione nell’etrusco per l’oscillazione t-d, ma il nesso tr alterna facilmente con dr in vari toponimi antichi. Altra giustificazione potrebbe provenire da una base illirica *adri-, roccia, e si è pure supposto un legame con atrium e ater latini, atru umbro. Ma, generalmente, si rinvia a un antichissimo tema toponimico preindoeuropeo di incerta individuazione.

Vediamo cosa dice a proposito di questi toponimi il Dizionario Latino-Italiano (Georges,1957):

Atria, ae, f., Adria, città della Venetia; gli abitanti Atriani, orum. Vedi anche Hadria.

Hadria (Adria), ae, f.,
I) città del Piceno, vicina alla foce del Vomano [3] , patria degli antenati dell’imperatore Adriano; oggi Atri.
II) città fondata dai Tusci tra il Po e l’Adige, che diede il nome al mare Adriatico; ancor oggi Adria.
Plurale sostantivo Hadriani, orum, m., abitanti di Adria (riferito a I), Adriani.

Quindi, secondo Georges, i Latini intendevano con Hadria, oltre all’odierna Atri, anche l’attuale Adria, nonostante la prima identificazione andasse per la maggiore. Inoltre, gli abitanti di Atri si chiamavano Hadriani, mentre quelli di Adria (RO) erano gli Atriani.  

Nel dizionario del Georges troviamo una discordanza rispetto ad altre fonti circa la fondazione di Adria (RO), che alcuni attribuiscono ai Veneti anziché ai Tusci.

Veneti. I Veneti costituivano un’antica popolazione di lingua indoeuropea stanziata probabilmente già prima del 1000 aC nell'attuale Polonia, da dove successivamente si spostarono, dirigendosi in parte verso i Balcani e l'Asia Minore, in parte verso la Gallia. Forse nel X secolo aC si mossero dai Balcani i gruppi di Veneti che nell'Italia settentrionale occuparono la zona tra le Alpi orientali e l'Adige (vedi l'aggiornamento del Corriere della Sera). I Veneti emigrati in Gallia si stanziarono nell'Armorica - antico nome della Bretagna - con centro a Darioritum, oggi Vannes nel dipartimento del Morbihan, in Bretagna.

Dediti ai commerci anche per mare e civilmente assai evoluti, i Veneti erano in via di assimilazione con i Galli quando Cesare, cui si erano tenacemente opposti, li sconfisse - 56 aC - inglobandoli col loro territorio nella provincia della Gallia Transalpina.

Dai contorni più precisi, in quanto ne sono rimaste cospicue testimonianze, è la civiltà dei Veneti dell'Italia settentrionale: popolazione progredita e pacifica, praticava largamente i commerci, resa famosa dai suoi allevamenti di cavalli. L’espansione degli Etruschi verso nord significò per Adria il periodo di maggior splendore, raggiunto nel V secolo aC, quando il nucleo più attivo della popolazione era etrusco. I Veneti, dopo essersi difesi con successo dagli Etruschi insediatisi ad Adria - porta d'ingresso dei prodotti dell'arte greco-orientale - nonché dai Galli insediatisi attorno al Garda e nella Carnia, instaurarono rapporti amichevoli con Roma cui furono d'aiuto durante l'invasione gallica della penisola nel 225 aC, rimanendole fedeli anche nel corso della calata di Annibale in Italia.

Etruschi o Tusci. Il popolo degli Etruschi si affermò nell'area corrispondente alla Toscana e al Lazio settentrionale a partire dall’VIII secolo aC. Nella loro lingua si chiamavano Rasena o Rasne, in greco Tyrrënoí. Sulla loro origine e provenienza non abbiamo notizie sicure. Secondo la tradizione riferita da Erodoto, sarebbero emigrati in Toscana dall'Asia Minore (Lidia); secondo altra tradizione, adombrata in Livio, vi sarebbero invece arrivati dal nord; secondo una terza tradizione, appoggiata dallo storico Dionigi d'Alicarnasso, sarebbero invece autoctoni.

Gli studiosi moderni hanno valorizzato l'una o l'altra tradizione. Probabilmente c'è del vero in ognuna, nel senso che dall'Asia Minore si verificò un'immigrazione in Toscana di gruppi isolati, apportatori di una civiltà evoluta, attratti dalle ricche miniere della regione; questo spiegherebbe l'improvviso esplodere della civiltà etrusca tra i secoli VIII e VII aC e le molte affinità che si notano nei costumi, nella lingua, nell'arte e nella religione degli Etruschi con il mondo egeo-anatolico. Fa contrasto il costume nei rapporti col mondo femminile. Si sa infatti che presso gli Etruschi le donne assistevano alle feste assieme agli uomini.  

Tralasciando i particolari, possiamo sintetizzare dicendo che gli Etruschi risulterebbero dalla fusione di tre componenti etniche: quella orientale, quella nordica, quella autoctona, costituendo così un popolo del tutto nuovo: popolo che però non arrivò mai a formare un'unità politica compatta e che non agì mai come nazione. Era invece costituito da numerose città, governate prima da re, detti lucumoni, poi da oligarchie. Tali città si raggruppavano talora in confederazioni o leghe di natura religiosa. Fattesi col tempo opulente per i prodotti delle terre circostanti, coltivate specialmente a frumento e con fiorenti allevamenti di animali, nonché per le miniere e i traffici commerciali, riuscirono ad affermarsi rapidamente creando grande prosperità ovunque, tanto da condizionare tra i secoli VII e V aC un’espansione a nord nella valle Padana. Qui si affermarono specialmente le città di Felsina (Bologna) e Marzabotto, collegate verso l'Adriatico con Spina, mediatrice degli influssi del mondo greco, e dedicandosi al ricco commercio dell'ambra e dello stagno, patrimonio dei paesi nordici. Tralasciamo il resto della loro storia limitandoci all’area geografica che c’interessa: il Polesine.

Adria. Nome di un’ipotetica terra nel mare Adriatico congiungente il Gargano alla costa Dalmata, che sarebbe stata smembrata e sommersa durante le ere geologiche. Della sua esistenza le Isole Tremiti sarebbero l’unica testimonianza. È detta anche Adriatite.

Atri non è vicinissima alle Tremiti, ma non è da loro così distante come lo è Adria nel Polesine. Atri dista 9 Km in linea d’aria dalla costa adriatica, giace intorno a 42°33' di latitudine nord, mentre la latitudine delle Tremiti è di poco inferiore, aggirandosi, occhio e croce, intorno a 42°06'. La latitudine di Adria corrisponde a circa 45°04' N.

Quale delle due Hadria sia più vicina al Gargano e alle Tremiti è presto detto, ma a quali delle due Hadria debba riferirsi il pollo in oggetto è un argomento da non toccare, in quanto carico di trabocchetti che solo gli specialisti sarebbero in grado di dribblare.

Veniamo al dunque e affrontiamo il testo di Aldrovandi relativo alle Gallinae Hadrianae  di cui parla in Ornithologiae Lib. XIV, Cap I, Genus. Differentiae. Le lettere che ho sottolineato indicano un errore di stampa, che nel caso di Imperarore invece di Imperatore, e nel caso di Imperatore invece di Imperatorem, non offrono il fianco a dubbi interpretativi. Molto più difficile è dimostrare che Aristotelis può essere un errore di stampa anziché una variante latina del nominativo Aristoteles. Sta di fatto che la posizione di Aristotelis nel contesto della frase non indicherebbe un genitivo, bensì colui che compie un’azione. Infatti come genitivo dovrebbe stare prima di Hadrianis; in tal caso il frammento di Aldrovandi dovrebbe suonare: de Aristotelis Hadrianis intelligat.

Inter eas, quae a veteribus celebrantur, Gallinas, Hadrianae, sive, ut vocavit Aristoteles Ἀδριανικαί, primo loco occurrunt. At quae sint, alios aliter sentire video, et revera neminem hactenus videre mihi contigit, qui exacte hac in parte doctis ingeniis satisfacere potuerit. Albertus magnus Philosophus sui temporis celeberrimus, dum quasdam Gallinas Hadriani Regis vocari dicit, quae suis magnae dicantur, aperte Aristoteli refragatur: si modo verum est, quod de Hadrianis Aristotelis intelligat, ut Augustinus Niphus affirmat, in Albertum invectus, cum ait: Gallinae Hadrianae non sunt magno corpore, et oblongo, ut somniavit Albertus, sed contra ut Aristoteles, et Ephesius tradiderunt, Haec ille. At quam bene ex hoc colligat Hadrianas Gallinas ab Hadriano Imperarore nomen invenisse, ipse viderit. Equidem Aristotelem longe ante Hadrianum Imperatore vixisse historia docet. Hadrianas vero a loco nomen accepisse, nimirum ab Hadria civitate nihilum dubito.

Hadrianae Gallinae, & quae sint.

Alberti error.

     

Niphi error.

 

 

Inter eas, quae a veteribus celebrantur, Gallinas, Hadrianae, sive, ut vocavit Aristoteles Ἀδριανικαί, primo loco occurrunt.

Il primo posto tra le galline celebrate dagli antichi è occupato dalle Hadrianae, o, come le ha denominate Aristotele, Adrianik.

Among the different chickens celebrated by the ancients the Adrianic hens held first place

At quae sint, alios aliter sentire video, et revera neminem hactenus videre mihi contigit, qui exacte hac in parte doctis ingeniis satisfacere potuerit.

Ma vedo che il parere circa la loro identità è discordante, e, a dire il vero, finora non mi è accaduto di trovare qualcuno in grado di soddisfare in modo corretto gli esperti in materia.

But what chickens these were is debatable and no one thus far as it seems to me has been able to satisfy the experts.

Albertus magnus Philosophus sui temporis celeberrimus, dum quasdam Gallinas Hadriani Regis vocari dicit, quae suis magnae dicantur, aperte Aristoteli refragatur: si modo verum est, quod de Hadrianis Aristotelis intelligat, ut Augustinus Niphus affirmat, in Albertum invectus, cum ait: Gallinae Hadrianae non sunt magno corpore, et oblongo, ut somniavit Albertus, sed contra ut Aristoteles, et Ephesius tradiderunt, Haec ille.

Alberto Magno, celeberrimo filosofo del suo tempo, nel dire che certe galline vengono dette del Re Adriano, che, stando alle sue parole, sarebbero di grandi dimensioni [4] , si contrappone apertamente ad Aristotele: se è appena un po’ rispondente al vero che Aristotele se ne intenda delle Hadrianae, come afferma Agostino Nifo, scagliandosi contro Alberto, quando dice: Le galline Hadrianae non sono di corpo grande ed allungato, come ha fantasticato Alberto, ma sono tutt’altra cosa, come ci hanno tramandato Aristotele e l’Efesino [5] . Queste le parole dell'Ornitologo (Conrad Gessner).

While Albertus Magnus, a very famous philosopher in his day, said that these were some chickens so called from the emperor Adrian and were called his great chickens, his statement is clearly at variance with that of Aristotle, if it is true that he is referring to the Adrianic chickens of Aristotle, as Augustinus Niphus insists when he contests the words of Albertus: The Hadrianic chickens are not large and long of body, as Albertus fancied, but quite otherwise according to Aristotle and his commentator, Michael of Ephesus.

At quam bene ex hoc colligat Hadrianas Gallinas ab Hadriano Imperarore nomen invenisse, ipse viderit.

Ma, anche lui potrebbe accorgersi con quanta esattezza in base a ciò concluda che le galline Hadrianae hanno preso il nome dall’Imperatore Adriano.

It will appear how accurate it is to say that Adrianic chickens received their name from the emperor.

Equidem Aristotelem longe ante Hadrianum Imperatore vixisse historia docet.

In verità, la storia c’insegna che Aristotele è vissuto molto tempo prima dell’Imperatore Adriano [6] .

?

Hadrianas vero a loco nomen accepisse, nimirum ab Hadria civitate nihilum dubito.

In realtà, non ho nessun dubbio che le Hadrianae hanno preso il nome da una località, per certo dalla città di Hadria.

I have not the slightest doubt but that Hadrian chickens were so called from the city Hadria [Adria] in the country of the Veneti in northeastern Italy. (pag. 27)

Dopo lunga meditazione, in data 4 novembre 2003 ho partorito una nuova  traduzione dell'intricato brano di Aldrovandi, sperando che sia più verosimile.

Tra le galline che vengono decantate dagli antichi in primo luogo compaiono le Hadrianae, o, come le chiamò Aristotele, Adrianik. Ma chi esse siano, mi accorgo che alcuni la pensano in un modo altri in un altro, ed effettivamente finora non mi è accaduto di trovare nessuno che sia stato in grado di soddisfare con precisione le persone competenti in questa materia. Alberto Magno, celeberrimo filosofo del suo tempo, mentre afferma che certe galline vengono dette del Re Adriano, le quali dai suoi compatrioti verrebbero dette di grandi dimensioni, si contrappone chiaramente ad Aristotele: ammesso che egli intenda le Hadrianae di Aristotele, come afferma Agostino Nifo, nell’attaccare Alberto, quando dice: Le galline Hadrianae non sono di corpo grande e allungato, come ha fantasticato Alberto, ma l’opposto, come ci hanno tramandato Aristotele e l’Efesino. Queste le parole dell'Ornitologo (Conrad Gessner). Ma lui stesso – cioè Nifo - si sarà reso conto che in base a questa affermazione deduce che le galline Hadrianae hanno preso il nome dall’imperatore Adriano. Senza dubbio la storia insegna che Aristotele è vissuto molto tempo prima dell’imperatore Adriano. In realtà non ho alcun dubbio che le Hadrianae hanno preso il nome da una località, senza dubbio dalla città di Hadria.

Among the hens extolled by ancients first of all are appearing the Hadrianae, or, as Aristotle called them, Adrianik. But what hens these were, I realize that some are thinking in one way, somebody else in another way, and really up to now didn’t happen to me to find anyone able to accurately satisfy the persons skilful in this matter. Albertus Magnus, a very famous philosopher in his days, while stating that certain hens are called of the Hadrian King, which by his countrymen would be called as large sized, clearly is opposing himself with Aristotle: on condition that he is referring himself to the Hadrianae of Aristotle, as Augustinus Niphus is affirming, when he attacks Albertus in saying: The Hadrianae hens are not of large and long body, as Albertus fancied, but quite otherwise as Aristotle and the Ephesian handed down. These are the words of the Ornithologist (Conrad Gessner). But he himself - i.e. Niphus - would have been aware that according to this affirmation he is exactly drducing that Hadrianae hens took the name from Hadrian Emperor. Doubtless the history shows that Aristotle lived long before than Hadrian Emperor. Really I don’t have the slightest doubt that Hadrianae took the name from a locality, doubtless from the town of Hadria.

Per cui, una parte delle contorte considerazioni che seguono sono in parte da scusare, e vanno valutate in base alla prima traduzione, che risale più o meno al 1997.

Per puri motivi di precisione e completezza riporto il testo latino di Conrad Gessner di cui sono venuto in possesso solo nel 2004 e che risulta molto più comprensibile della fantasmagorica bagarre imbastita da Aldrovandi nell’impiantare la sua disquisizione relativa alle galline Hadrianae, una disquisizione che è stata malamente miscelata usando i dati riferiti da Gessner in Historia Animalium III (1555) pag. 380-381.

Hadrianae gallinae (Ἀδριανικαί, nimirum a regione, non ut Niphus suspicatur quod forte ab Adriano Imperatore observatae sint, vixit enim Adrianus multo post Aristotelis tempora) parvo quidem sunt corpore, sed quotidie pariunt, ferociunt tamen, et pullos saepe interimunt, color his varius, Aristot. Et alibi, Multa admodum pariunt. fit enim propter corporis exiguitatem, ut alimentum ad partionem sumptitetur. Hadrianis laus maxima (circa foecunditatem,) Plinius. Adrianas sive Adriaticas gallinas (τοὺς Ἀδριατικοὺς ὄρνιθας) Athenienses alere student, quanquam nostris inutiliores, utpote multo minores. Adriatici vero contra nostras accersunt, Chrysippus apud Athenaeum lib.7. Gallinae quaedam Adriani regis vocantur, quae apud nos dicuntur gallinae magnae, et sunt magni oblongi corporis, abundant apud Selandos et Hollandos, et ubique in Germania inferiore. Pariunt quotidie, minime benignae in pullos suos, quos saepe interficiunt. Colores earum sunt diversi, sed apud nos frequentius sunt albae, aliae aliorum colorum. Pulli earum diu iacent sine pennis, Albertus. sed hae forsitan Medicae potius vel Patavinae gallinae fuerint. Gallinae Adrianae non magno et oblongo corpore sunt, ut somniavit Albertus, sed contra ut Aristoteles et Ephesius tradiderunt, Niphus. Gyb. Longolius Germanice interpretatur Leihennen, Variae sunt (inquit) rostro candidiusculo. pulli earum columbarum pipiones colore referunt. Ab Adriaticis mercatoribus primum in Graeciam advectae videntur, et inde nomen tulisse. Quod autem ferocire Aristoteles eas scribit, factum esse puto ob patriae mutationem, cum in calidiores regiones devectae et ferventioris ingenii redditae sunt, Haec ille. Varro Africanas, quas non alias esse constat quam Hadrianas, varias et grandes facit, Turnerus. Ego Africanas ab Adrianis multum differre puto, cum Numidicis vero easdem esse. Hispanus quidam amicus noster gallinam Adrianam, Hispanice gallina enana nominat. nimirum quod corpore nana et pumila sit, quale genus in Helvetia apud nos audio nominari Schotthennen, alibi Erdhennle, alibi Däsehünle. Sed Gyb. Longolius gallinas p{l}umilas Germanice vocat kriel. Vulgares sunt (inquit) et passim extant. per terram reptant claudicando potius quam incedendo. Licebit autem gallinaceos huius generis pumiliones, gallinas pumilas cum Columella nominare. sunt enim in omni animantium genere nani, ut dixit Theophrastus. Pumiliones, alias pumilas, aves, nisi quem humilitas earum delectat, nec propter foecunditatem, nec propter alium reditum nimium probo, Columella. Est et pumilionum genus non sterile in {iis} <his>, quod non in alio genere alitum, sed quibus {certa} <centra> foecunditas rara et incubatio ovis noxia, Plinius.

Le galline Hadrianae (Adrianikaí, evidentemente da una regione, non come ipotizza Agostino Nifo, e cioè, in quanto forse sarebbero state osservate dall’imperatore Adriano; infatti Adriano visse molto dopo i tempi di Aristotele) sono in effetti di corporatura minuta, ma depongono tutti i giorni, tuttavia diventano aggressive, e spesso uccidono i pulcini, hanno una colorazione variegata, Aristotele. E in un’altra opera: Depongono moltissime uova. Infatti a causa della corporatura esigua avviene che l’alimento è utilizzato per la procreazione. Alle Hadrianae va la lode più grande (a proposito della fecondità), Plinio. Gli Ateniesi si industriano nell’allevare le galline Hadrianae o Adriatiche (toùs Adriatikoùs órnithas), nonostante siano più inutili delle nostre, in quanto sono molto più piccole. Ma, al contrario, le popolazioni dell’Adriatico si procurano le nostre, Crisippo in Ateneo, libro VII. Alcune galline vengono chiamate del re Adriano, quelle che presso di noi vengono dette galline grandi, e sono di corporatura grande e allungata, sono abbondanti presso gli abitanti della Zelanda e dell’Olanda, e ovunque nella provincia della Germania inferiore. Depongono tutti i giorni, non sono assolutamente amorevoli nei confronti dei loro pulcini, che spesso uccidono. La loro colorazione è varia, e presso di noi più spesso sono bianche, altre sono di altri colori. I loro pulcini rimangono a lungo senza penne, Alberto Magno. Ma forse queste saranno state galline della Media, o meglio, di Padova. Le galline Hadrianae non sono di corpo grande e allungato, come ha fantasticato Alberto, ma il contrario, come hanno tramandato Aristotele e l’Efesino – Michele di Efeso, scrive Agostino Nifo. Gisbert Longolius in tedesco le traduce con Leihennen, e dice: Sono di colorazioni diverse con il becco bianchiccio. I loro pulcini riecheggiano nel colore i piccoli dei colombi. Sembra che siano state portate per la prima volta in Grecia dai mercanti dell’Adriatico, e che da ciò hanno preso il nome. D’altra parte, siccome Aristotele scrive che esse diventano aggressive, ritengo che ciò sia avvenuto per un cambiamento del loro luogo d’origine, dal momento che trasferite in regioni più calde sono diventate anche di indole più focosa, queste le parole di Longolius. Varrone definisce variegate e grandi le Africane, che risultano non essere altro che le Hadrianae, William Turner. Io ritengo che le Africane differiscono alquanto dalle Hadrianae, e che le prime corrispondono alle galline di Numidia. Un mio amico spagnolo chiama in spagnolo gallina enana la gallina Hadriana: senz’altro perché è nana e piccola di corporatura, quella razza che presso di noi in Svizzera sento dire essere chiamata Schotthennen, altrove Erdhennle, altrove Däsehünle. Ma Gisbert Longolius in olandese chiama kriel le galline nane. Egli dice: Sono comuni e si trovano dappertutto. Strisciano per terra zoppicando anziché camminando. Sarà pertanto lecito chiamare, come fa Columella, gallinae pumilae i gallinacei nani di questo tipo. Infatti in seno a tutto il regno animale esistono dei nani, come disse Teofrasto. Le galline nane, salvo che a qualcuno piacciano le loro piccole dimensioni, non le apprezzo eccessivamente né per la loro fecondità né per un qualsivoglia altro tornaconto, Columella. Vi è anche una razza di nane non sterile fra queste, non presente in altre specie di volatili, ma quelle con gli speroni sono raramente feconde e il loro covare è nocivo alle uova, Plinio.

Apud Tanagraeos duo genera gallorum sunt, hi machimi, (id est pugnaces, vel praeliares, ut Hermolaus) vocantur, alii cossyphi. Cossyphi magnitudine Lydas gallinas aequant, colore similes corvis (coracino, hinc cossyphi nimirum dicti quod merularum instar atri coloris sint:) barbam et cristam habent instar anemones, (calcaria et apex {anemonae} <anemones> floris macula<e> modo rubent, Hermol.) Candida item signa exigua in rostro supremo et caudae extremitate, Pausanias in Boeoticis interprete Loeschero. Ad pugillatum atque praelia, Graeci e Boeotia Tanigricas, item Rhodias, (ut Athenaeus, Columella, Martialis,) nec minus Chalcidicas et Medicas probavere. quidam Alexandrinas in Aegypto, Hermolaus. Tanagrici, Medici et Chalcidici, sine dubio sunt pulchri, et ad praeliandum inter se maxime idonei, sed ad partus sunt steriliores, Varro.

Presso gli abitanti di Tanagra esistono due tipi di galli, i primi vengono chiamati machimi (cioè bellicosi o da combattimento, come traduce Ermolao Barbaro), gli altri sono detti cossyphi – merli. I cossyphi eguagliano in grandezza le galline della Lidia, nel colore sono simili ai corvi (di colore corvino, per cui chiaramente sono detti cossyphi in quanto sono di colore scuro come quello dei merli): hanno la barba - i bargigli - e la cresta come l’anemone (Ermolao riporta: gli speroni e la cresta rosseggiano come una macchia di fiore di anemone). Parimenti presentano delle piccole tacche bianche alla punta del becco e all’estremità della coda, Pausania il Periegeta, in Beozia, traduzione di Abraham Löscher. I Greci apprezzarono per gli scontri e le gallomachie i polli di Tanagra in Beozia, così come quelli di Rodi (come Ateneo, Columella, Marziale), e altrettanto quelli di Calcide e della Media. Alcuni quelli di Alessandria d’Egitto, Ermolao. I polli di Tanagra, della Media e di Calcide sono senza dubbio belli e abilissimi nel combattere fra loro, ma piuttosto improduttivi riguardo alla prole, Varrone.

Tanagrici plerunque Rhodiis et Medicis amplitudine pares, non multum moribus a [381] vernaculis distant, sicut et Chalcidici, Columella: cum paulo ante dixisset Rhodii generis aut Medici propter gravitatem neque gallos nimis salaces, nec foecundas esse gallinas. Et rursus, Deliaci (scriptores) quoniam procera corpora et animos ad praelia pertinace{i}s requirebant, praecipue Tanagricum genus et Rhodium probabant, nec minus Chalcidicum et Medicum, quod ab imperito vulgo litera mutata Melicum appellatur. Ex gallinaceis quidam ad bella tantum et praelia assidua nascuntur, quibus etiam patrias nobilitarunt Rhodum {ac} <aut> Tanagram. Secundus est honos habitus Melicis et Chalcidicis, ut plane dignae aliti tantum honoris {praebeat} <perhibeat> Romana purpura, Plinius.

Quelli di Tanagra per lo più uguagliano in grandezza quelli di Rodi e della Media, e per comportamento non si distaccano molto da quelli nostrani, così come quelli di Calcide, Columella: mentre poco prima aveva detto che della razza di Rodi o della Media a causa del peso né i galli sono eccessivamente lussuriosi né le galline prolifiche. E ancora, Quelli di Delo (scrittori allevatori) siccome ricercavano corpi di alta statura e spiriti ostinati nei combattimenti, apprezzavano soprattutto le razze di Tanagra e di Rodi, e altrettanto quelle di Calcide e della Media, che dalla gente incompetente, con lo scambio di una lettera, viene detta Melica. Tra i gallinacei alcuni nascono soltanto per continue lotte e combattimenti, grazie ai quali hanno anche reso famosa la loro patria, Rodi o Tanagra. Il secondo posto è stato dato a quelli della Media e di Calcide, cosicché i porporati romani rendono tanto onore a un uccello del tutto meritevole, Plinio.

Purtroppo, per il momento, l’unica traduzione integrale e disponibile del Liber XIV del II volume del trattato di Ornitologia di Aldrovandi è quella di Lind qui riportata, per cui l’appassionato italiano del pollo che non mastichi due parole d’inglese si trova con le ali tarpate grazie anche a coloro che con uno squallido spot televisivo si limitano a redarguirci se non coltiviamo qualche interesse. Chi l’inglese lo biascica un po’ di più può tuttavia incorrere in errori interpretativi sull’origine delle razze: è il caso delle galline di Hadria così come vengono proposte dal brano geograficamente fantasioso di Lind. Ricordiamoci che la genetica è anche storia, storia senza storpiature.

Una delle mancanze di Lind sulla quale non transigo consiste nel fatto che la sua traduzione non è accompagnata dal testo latino, cosa possibile in un volume per il quale basterebbe ridurre l’interlinea e rimpicciolire i caratteri di uno-due punti: ecco che la sua fatica avrebbe risonanza ben maggiore in quanto il confronto con l’originale è indispensabile. Si lascerebbe inoltre a ciascuno la possibilità di tradurre alla lettera o liberamente, nonché di verificarvi l’esistenza o l’assenza di frasi.

Avrete notato che appena possibile è mia premura riportare il testo originale, in quanto la mia traduzione potrebbe essere inficiata da preconcetti o da scarsa conoscenza della lingua, senza tralasciare le mie lacune storiche. Ovviamente non è possibile riportare tutti i testi in lingua originale, altrimenti mi vedrei costretto a raddoppiare i volumi di questo trattato, essendo in lingua inglese quasi tutta la letteratura da cui ho attinto le informazioni contenute in Summa Gallicana. Ma dove l’interpretazione è difficile, oppure quando il passo è di particolare importanza, mi adeguo al principio appena esposto.

Ora, in Lind esistono tre errori, uno dei quali è della massima importanza.

Procediamo con ordine ad analizzare latino e inglese.  


1 - Secondo Aldrovandi l’errore di Sant’Alberto Magno è duplice, in quanto Alberto ritiene che le Hadrianae prendano il nome dall’omonimo Imperatore e in quanto accetta che siano delle giganti. Non so se un giorno avrò tra le mani il testo di Alberto per verificare se effettivamente egli accettasse la grande mole di questi polli (15 agosto 2007: VI,1,3: Adhuc autem quaedam sunt gallinae, quae Adriani regis vocantur, et apud nos dicuntur gallinae magnae, et sunt magni et longi valde corporis, [...] – De animalibus, Hermann Stadler, 1916), contestata da Agostino Nifo che, giustamente, si richiama all'autorità di Aristotele. Lind traduce quae suis magnae dicantur con and were called his great chickens (ed erano chiamati i suoi grandi polli). I suoi grandi polli di chi? Dell’Imperatore Adriano, ovviamente. Ma, il testo inglese girato in latino dovrebbe suonare così: quae suae magnae dicebantur, meglio, quae magnae suae dicebantur. La traduzione è molto più semplice dato che, oltretutto, qualche pagina più avanti, a pagina 32, Lind si esprime così:

Albertus calls certain hens of the emperor Hadrian and among his own people he says they are called great, that is, of a big and rather long body.

Alberto chiama certe galline dell’Imperatore Adriano e dice che in seno al suo popolo esse sono dette grandi, cioè, di corpo grande e allungato.

Albertus quasdam Gallinas Hadriani Regis appellat,
et apud suos magnas vocari ait,
magni scilicet, et oblongi corporis.

Quindi, durante la revisione del lavoro, Lind doveva solo ricordarsi di questa successiva frase da lui tradotta in modo esatto.


2 - Secondo Aldrovandi, Agostino Nifo era perfettamente conscio che Aristotele conoscesse le Hadrianae; perciò Nifo ci tiene a puntualizzare che esse non hanno una grande mole, come invece accettava Alberto. Infatti - come dice Capponi - Aristotele le aveva descritte come di taglia piccola e dal mantello variopinto.

Aristotelis intelligat dovrebbe stare per Aristoteles intelligat, e può essere un errore tipografico, oppure la grafia Aristotelis è dovuta al fatto che Aldrovandi adottava la pronuncia del greco cosiddetta roicliniana, ossia, quella proposta dall’umanista tedesco Johannes Reuchlin (1455-1522), in base alla quale la vocale eta h - la e lunga - viene pronunciata i.

Il nominativo di Aristotele, in greco, finisce con le lettere eta e sigma -hj che in greco moderno si pronunciano -is. Reuchlin, partendo dal presupposto che era impossibile conoscere con esattezza la pronuncia degli antichi Greci, sostenne che si dovesse seguire quella dei moderni, contrapponendosi appieno ad Erasmo da Rotterdam (1466 o 1467-1536), il quale voleva che il greco fosse pronunciato così com’era scritto.

Se quella del modo di pronunciare il greco non è una giustificazione del nominativo Aristotelis in grado di soddisfare chiunque, eccoci alle irregolarità latine della declinazione di Aristoteles: al genitivo può fare Aristotelis e Aristoteli, mentre all’accusativo può suonare sia Aristotelem che Aristotelen. Questa seconda possibilità corrisponde a una delle due forme dell’accusativo greco dei nomi proprii, pronunciato però alla maniera di Erasmo.

Che Aldrovandi avesse adottato la pronuncia roicliniana dovrebbe risultare evidente dal brano tratto dall’encomio del cigno, citato a proposito della prolissa disquisizione su cigni-sì cigni-no nel menu di Salomone. Infatti, Aldrovandi, facendo riferimento all’opera di Ateneo di Nàucrati, scrive Dipnosophistis e non Deipnosophistis come avrebbe voluto Erasmo da Rotterdam, in quanto, anche ei viene pronunciato i in greco moderno.

Posto che Aristotelis è nominativo a causa della sua posizione nella frase, Aldrovandi accetta come vero il fatto che il Filosofo greco conoscesse le Hadrianae, anche se questa convinzione è attribuita ad Agostino Nifo in quanto ci troviamo in presenza di un verbo al congiuntivo presente, intelligat, che viene usato con quod nelle proposizioni causali oblique, quelle cioè che specificano un motivo come frutto del pensiero di persona diversa da chi scrive o parla. In altre parole, dato che chi scrive è Aldrovandi, e dato che Nifo riferirà, tra poco, quello che diceva Aristotele sulle Hadrianae, Nifo, confortato anche da Michele di Efeso, sapeva che Aristotele non era uno sprovveduto. Aldrovandi, pur concordando in questo caso con le cognizioni di Aristotele, mette un tempo al condizionale in quanto la credibilità di Aristotele è demandata a Nifo, e questa convinzione di Nifo si paleserà nel momento in cui egli si contrappone ad Alberto dicendo che le Hadrianae non sunt magno corpore, et oblongo.

Non crediate che Aldrovandi concordi sempre con Aristotele. Infatti gli chiede scusa per il fatto di non trovarsi d’accordo quando egli afferma che la natura ha dotato di speroni quegli uccelli che sono inetti al volo. Anche la taglia piccola delle Hadrianae potrebbe essere un errore di Aristotele, ma in questo caso Aldrovandi non è di quest’avviso.

Invece, la traduzione di Lind fa chiaramente intendere che forse Alberto si riferiva alle Hadrianae di Aristotele: he [Albertus] is referring to the Adrianic chickens of Aristotle.

Possiamo fare anche quest’osservazione: d’accordo che Alberto parla di galline giganti, mentre Aristotele dice che si tratta di galline nane, ma l’etimologia del nome Hadrianae adottata da Alberto non viene messa in dubbio da Nifo: forse Alberto e Aristotele stanno parlando di polli diversi battezzati allo stesso modo.

Dopo questa dotta disquisizione, escogitata per mettere a dura prova la vostra pazienza, posso dirvi che in realtà propendo per la versione opposta, cioè, se è vero che Alberto voglia far riferimento alle Hadrianae di Aristotele etc. Se un’argomentazione è troppo lunga e contorta, essa è stata stiracchiata per i capelli; di norma le cose vere hanno bisogno di pochi chiarimenti.


3 - Anche Nifo commette un errore. Infatti, nonostante abbia giustamente fatto notare l’errore di Alberto relativo alla taglia dei polli, non contesta affatto l’origine del loro nome accettata dal Filosofo tedesco, cioè anche Nifo accetta la provenienza di Hadrianae da Adriano. Perlomeno così la pensa Aldrovandi, e credo colga nel segno. Questo modo di ragionare denota una particolare formazione della mentalità di Ulisse: la precisione. Se durante una contestazione ci si astiene dal mettere in evidenza tutti i punti negativi di un argomento, è come se si accettassero anche gli errori sottaciuti. Se non per ignoranza, magari per pura pigrizia.


4 - Aldrovandi fa giustamente notare che quasi cinque secoli separano Aristotele da Adriano. Perciò Nifo, non mettendo in evidenza questo fatto, diventa correo di Alberto. è possibile che l’edizione di Ornithologia in possesso di Lind non riporti questa frase. Il fatto è piuttosto inverosimile, dato che la mia fonte è uscita dalla stessa tipografia e nello stesso anno. La frase omessa da Lind rappresenta la chiave di volta per capire l’argomentazione anti-etimologica di Aldrovandi: la distanza temporale fra Aristotele e Adriano permette di accusare sia Nifo sia Alberto, e allo stesso tempo dà ragione a Ulisse sul perché le Hadrianae portavano questo nome.


5 - L’illazione di Lind sulla terra d’origine delle Hadrianae può essere definita manipolazione, in quanto Aldrovandi si limita a dire che, secondo lui, quei polli provengono da una località, precisamente da una città di nome Hadria, senza citare Veneto e nordest dell’Italia. Preciso com’era, non v’è dubbio che Aldrovandi sapesse benissimo cos’era Atria e cos’era Hadria. Quasi furbescamente, Capponi si tiene fuori dalla mischia, non adducendo alcuna interpretazione sulla tanto controversa Adria, se del Veneto o del Piceno.


Giovanni Antonio Magini (Padova 1555 - Bologna 1617), astronomo, geografo e matematico, essendo stato preferito a Galileo, dal 1588 andò a insegnare matematica nello studio di Bologna. Egli non accettava le nuove ipotesi copernicane eliocentriche, anzi, tenace avversario di Galileo, tentò di contrapporre al sistema copernicano un suo proprio sistema del mondo, estremamente complicato. Copernico pare ricevesse la prima copia del suo De revolutionibus orbium coelestium libri VI sul letto di morte (1543), affidando ad altri la diffusione della sua scandalosa teoria, abbracciata apertamente da Giordano Bruno (1548-1600). Così, nel 1596 Magini pubblicava la Geografia di Claudio Tolomeo, l’insigne astronomo, matematico e geografo greco del II secolo dC, sinonimo di teoria geocentrica, che per la Chiesa doveva rimanere intoccabile, salvo dover reinterpretare il biblico fermati o sole.

Fig. VIII. 26 - Toponomastica di Atria e di Hadria: essendo impossibile ottenere per tempo un microfilm della cartografia di Magini, sono costretto a ripiegare su opere molto più recenti. La cartina di sinistra e quella al centro provengono dall’Atlante Enciclopedico Touring Club Italiano (1989) e mettono in evidenza che, nell’Italia Augustea, Adria faceva parte della Regio X - Venetia - ed è scritta Hatria, mentre Atri si trovava nella Regio V - Picenum - ed è scritta Hadria. Ma ciò che mette maggiormente in evidenza la disinformazione di Lind è la Cartographic Division della National Geographic Society: infatti, nella cartina di destra (1982) Adria è scritta Atria.

Proprio in una copia rinascimentale di questa Geografia di Tolomeo del Magini, Adria è scritta Atria e Atri è scritta Adria. Chi ha copiato dal Magini, o si è sbagliato oppure ha privato Hadria della lettera H. Infatti [7] , nella seconda parte di Geografia, cioè descrittione universale della terra partita in 2 volumi etc di Gio. Ant. Magini, Venezia 1598 - Giovanni Battista & Giorgio Galignani Fratelli - alla tavola VI, Europa, la città di Adria è scritta Atria e quella di Atri è scritta Hadria. Che Ulisse fosse o non fosse copernicano, questa era la toponomastica dei suoi tempi.

Lind ha il chiodo fisso di Adria nel Veneto. Così, giunge persino a trasfigurare la parola Adriatici, usata al nominativo plurale. Prima di parlare dei polli di Tànagra, Aldrovandi riporta le parole di Crisippo [8] , riferite da uno - τις - dei dotti commensali de I Dipnosofisti di Ateneo. Le parole di Crisippo si riferiscono a polli allevati dagli Ateniesi, le galline dell'Adriatico:

Has Athenienses alere studebant, quanquam nostris inutiliores: Adriatici vero contra nostras accersire solebant.

Gli Ateniesi si industriavano nell’allevare queste galline, nonostante fossero più inutili delle nostre: invece, al contrario, le popolazioni dell’Adriatico erano solite procurarsi le nostre.

The Athenians liked to raise these chickens, although they are less useful than ours; but the people of Adria were accustomed to call for them rather than for our chickens. (pag. 30)

È veramente disdicevole per Lind non riuscire a collegare tra loro due banali notizie di geografia: quando abitava ad Atene, Crisippo faceva il bagno nell’Egeo, mentre da piccolo si sarà tuffato qualche volta nelle acque dirimpetto a Cipro. Ecco perché Crisippo parla di Adriatici (non specificati nel testo greco, in quanto vengono identificati come ekeînoi - quelli là): lui non ha nulla da spartire con le acque di questo mare. Vorrei sottolineare che non sto disquisendo di queste cose per motivi di campanilismo, in quanto Adriatici non sono solo gli Italiani, essendolo anche gli Illiri.

Il peccato di Lind è ancora più grave in quanto gli abitanti di Adria nel Piceno in latino erano detti Hadriani, quelli di Adria nel Rovigotto erano chiamati Atriani, e ambedue erano degli Adriatici.

Esiste poi un altro errore madornale nella traduzione in inglese di questo breve frammento. Lind non intende il senso del discorso. Crisippo dice che ’ste benedette Hadrianae venivano allevate ad Atene anche se proprio non ne valeva la pena, in quanto in Grecia avevano galline ben migliori di quelle originarie di Hadria. E la conferma l’abbiamo da Conrad Gessner che non tralascia – al contrario di Aldrovandi - un particolare importante del discorso di Crisippo: le galline Hadrianae allevate dagli Ateniesi erano ancor più inutili di quelle greche in quanto erano molto più piccole. Vale la pena citare nuovamente per intero la frase di Conrad Gessner - pagina 380 di Historia animalium III (1555) – il quale incorpora nella citazione la motivazione ‘utpote multo minores’ tralasciata da Aldrovandi: Adrianas sive Adriaticas gallinas (τοὺς Ἀδριατικοὺς ὄρνιθας) Athenienses alere student, quanquam nostris inutiliores, utpote multo minores. Adriatici vero contra nostras accersunt, Chrysippus apud Athenaeum lib.7.

Il ridicolo, secondo Crisippo, consisteva nel fatto che proprio coloro che avevano selezionato questa razza inutilior, più inutile di altre razze allevate in Grecia - e tra questi selezionatori è ovvio che fossero inclusi gli abitanti di Hadria, essendo anch’essi degli Adriatici - proprio loro si erano accorti della sua inutilità, e così andavano a rifornirsi di razze greche. Quindi gli Ateniesi facevano proprio l’opposto di quanto suggerito dagli Adriatici i quali, per il fatto di acquistare polli greci, lanciavano un monito: "Allevatevi i vostri polli, o Ateniesi, non le nostre Hadrianae che sono più inutili di quanto lo sono già i vostri polli!"

Invece Lind dice che i Veneti di Adria andavano a prendersi le Hadrianae in Grecia: to call for them (Hadrianae) rather then ours (Greche). Questo modo di tradurre di Lind implicherebbe un acquisto di Hadrianae in Grecia allo scopo di ridurre il grado di consanguineità. Potrebbe trattarsi di una valida argomentazione dal punto di vista biologico, ma che stravolgerebbe il senso del discorso di Crisippo, incentrato sull'aggettivo inutiliores.

Dobbiamo disquisire sull’avverbio contra, se significa contrariamente riferito a galline oppure a quanto facevano gli Ateniesi che allevavano le Hadrianae (mentre gli Adriatici agognavano portarsi a casa le razze della Grecia). Il tono del discorso di Crisippo è chiaro, perciò vi consiglio di credere a me, non a Lind: gli Adriatici importavano galline greche.

Esiste una sottigliezza che vorrei farvi notare: Crisippo arricciava un po’ il naso nei confronti dell’avicoltura. Infatti se le Hadrianae erano più inutili delle Greche, anche le Greche lo erano. Non chiedetemi il perché di questo suo punto di vista. Non saprei rispondervi.

Ed ecco che il modo di ragionare di Crisippo viene del tutto trasformato da Lind: d’accordo che dire meno utili - less useful - oppure più inutili - more useless - può sembrare la stessa cosa. Ma così non è. Un conto è ritenere un uccello meno utile, un altro è considerarlo più inutile. Eppure Lind si permette di adottare la prima versione.

Di galline Hadrianae Aldrovandi parla per l’ultima volta in chiusura del paragrafo Forma et Descriptio. Queste sono le sue parole:

Aristoteles, Pliniusque, Hadrianas in primis celebrant, quod multa admodum pariant: qua de re supra satis superque disputatum est.

Aristotele e Plinio decantano in special modo le galline di Hadria in quanto depongono moltissime uova: sulla qual cosa in precedenza si è dissertato in modo più che sufficiente.

Quindi a rigor di logica Aldrovandi non dovrebbe più toccare l’argomento e neppure affermare quale sia la città indiziata d’aver messo al mondo una razza tanto criticata da Crisippo. Salvo che dopo aver letto l’intero testo in latino, ricevuto solo a metà novembre 1996 grazie al Professor Gabriele Baldan di Padova, io debba rimangiarmi tutto quanto poiché, magari, Aldrovandi parla nuovamente di Hadrianae e di questa Hadria, e dica trattarsi dell’attuale Adria. In tal caso la ragione spetterebbe a Lind.

Ma ciò non accadrà perché anche dal minuzioso indice, redatto dal minuzioso Aldrovandi, possiamo dedurre che di Hadrianae si parla per l’ultima volta a pagina 198 dove si trova il brano appena citato.

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Riprendiamo il discorso di Capponi.

Plinio riassume l’osservazione aristotelica; anzi, inserisce un'altra informazione, quindi lega le note sulla quantità delle uova prodotte in tutto l’anno ed in un solo giorno, trascurando la distinzione tra le Galline di razza e le comuni, e, infine, ricorda le Galline di Hadria dimenticandone la descrizione:

Quaedam omni tempore coeunt, ut gallinae, et pariunt, praeterquam duobus mensibus hiemis brumalibus. Ex iis iuvencae plura quam veteres, sed minora, et in eodem fetu prima ac novissima. Est autem tanta fecunditas ut aliquae et sexagena pariant, aliquae cotidie, aliquae bis die, aliquae in tantum ut effetae moriantur. Hadrianis laus maxima. (X,146)

Alcuni uccelli, come le galline, si accoppiano e si riproducono in ogni stagione, tranne che nei due mesi del solstizio invernale. Fra queste, le giovani ne depongono più delle vecchie, ma le uova sono più piccole, e, nell'arco di una stessa carriera produttiva, lo sono le prime e le ultime. Sono tanto feconde che alcune arrivano a deporre anche sessanta uova, alcune al ritmo di un uovo al giorno, altre due volte al giorno, altre ne fanno così tante che, spossate dal parto, muoiono. La massima lode va a quelle di Hadria.

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Le leggende sono difficili da sfatare, ma lasciate che mi cimenti. Premetto che non ho mai sentito parlare di galline che depongono due uova al giorno. Di norma, ogni giorno, un follicolo compie il proprio ciclo ovulatorio e un altro follicolo viene richiamato dalla schiera di oociti in attesa di intraprendere l’accrescimento. Così, l’ovulazione è quotidiana; inoltre, ogni ciclo possiede una pausa.

La durata della sequenza è caratteristica di una razza e, talvolta, dell'individuo. La nuova ovulazione segue di 30 minuti la deposizione appena avvenuta, salvo che l’uovo sia stato deposto nel tardo pomeriggio. In tal caso l’ovulazione viene rinviata al primo mattino del giorno successivo. Da notare tuttavia che l’ovulazione non dipende dal fatto meccanico dello sgravarsi, poiché si verifica ad intervalli regolari anche se l’uovo precedente è stato prematuramente tolto dall’utero. L’ora della deposizione dipende dall’illuminazione: una gallina che fa l’uovo ogni 26 ore, deporrà alle 8, 10, 12, 14, 16, e deporrà per 5 giorni di seguito, quindi riprenderà a deporre la mattina di dopodomani. Se si rovesciano le condizioni d’illuminazione, oscurando il giorno e illuminando la notte, si ottiene uno spostamento di mezza giornata sull’ora della deposizione. Se l’illuminazione è continua, la gallina può ovulare e deporre in qualunque ora del giorno e della notte.

Se la leggenda di due uova al giorno è difficile da sfatare, l’impresa si fa più ardua quando le uova deposte diventano tre.

Ciclopico, se non impossibile, è controbattere qualcuno che riesce ad affermare l’esistenza d’una mandata di uova che sembra una slavina: 18 uova in un colpo, at the same time. Costui dovrebbe essere Aldrovandi, stando alla solita traduzione di Lind, che, a questo punto, sospetto sia stata affidata a qualcuno che era alle prime armi con il latino.

Ecco tra poco i frammenti in cui Lind traduce semel  - che in italiano significa una sola volta  - in due modi diversi: dapprima con once a day, quindi con at the same time.

Ma il senso del testo originale è chiaro: il primo semel sta ad indicare che la gallina di norma depone una sola volta al giorno, mentre la Gallina Macedone procurò diciotto gemelli semel - una sola volta - durante la sua carriera di fetatrice (o embrionatrice, per i pignoli), che supponiamo fosse del tutto normale, cioè di un uovo al giorno.

Il modo di tradurre di Lind vuole stravolgere gli avvenimenti. Oppure, quando traduceva, Lind aveva la mente stravolta [9] . Mi spiace esprimermi in questo modo. Credo tuttavia che qualcuno, il sottoscritto, debba rendere giustizia ad Aldrovandi, visto che i nostri mass media e i nostri Governanti hanno la bocca straripante solo di fatue promesse quando blaterano di fomentare la cultura. Vedremo se si faranno avanti quando proporrò la traduzione integrale del Libro XIV del II volume di Ornithologia!

Aristoteles etiam alibi, si modo genuinus Aristoteles, author est ex aliorum relatione Gallinas in Illyria, non ut alibi semel parere, sed bis, aut ter in die. Item alibi disertissimis verbis tradit, in genere Gallinarum esse, quae pariant ova omnia gemina [...] nam et Pierius Valerianus apud Macedones Gallinam repertam asserit ex aliorum relatu quae duodeviginti semel ediderit, et incubitu binos pullos ex ovis singulis excluserit.

In un altro punto Aristotele [de Mirabilibus 842b 27], se solo è l'Aristotele autentico, in base a quanto ha saputo da altri, riferisce che in Illiria esistono galline che non fanno uova una sola volta al giorno come dalle altre parti, bensì, due, o anche tre volte. Con linguaggio altrettanto eloquente in un altro punto ci tramanda che in seno al genere delle galline esistono di quelle le cui uova sono tutte gemellari […] infatti anche Giovan Pietro Bolzani in base al racconto altrui asserisce che presso i Macedoni è stata trovata una gallina che una sola volta depose diciotto uova, e che dopo averle covate ha fatto nascere da ogni uovo due pulcini. [10]

Elsewhere, Aristotle, if he is the genuine author, reports from another source that hens in Illyria do not lay once a day as they do elsewhere but twice or three times a day. In another passage he says in most eloquent language that there is a breed of hens which lays all its eggs as twins […] for Piero Valeriano asserts on the basis of description by others that among the Macedonians a hen was found which laid eighteen eggs at the same time, and when they were incubated two chicks came out of each egg. (pag. 36)

Il complesso problema delle due uova al giorno avremo modo di affrontarlo in termini scientifici nel III volume, nel capitolo della genetica speciale dedicato all’uovo, riferendo gli studi di Middelkoop.

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Vogliamo annotare come Plinio modifica, forse per influenza di altra fonte, l’informazione aristotelica: Aristotele precisa che gli individui giovani depongono appena iniziata la primavera; Plinio tace; il filosofo greco si limita a dire che le uova sono più piccole; l’autore latino osserva che le prime e le ultime sono le uova più piccole: et in eodem fetu prima ac novissima.

A commento delle osservazioni aristoteliche e pliniane, malgrado i nuovi risultati conseguiti anche nella pollicoltura rurale sulla base della conoscenza della genetica, delle nozioni sulle principali malattie degli animali, dell'igiene, dobbiamo ammettere come gli antichi, in forza dell'esperienza, seguissero norme ancor oggi prescritte. Per il miglioramento della produzione di uova, nell'allevamento moderno, si scelgono soggetti giovani di 6-7 mesi, che, nati in primavera (marzo-aprile), possano deporre nel periodo (novembre-dicembre) in cui i Polli diminuiscono la loro produzione o, addirittura, la interrompono. È esatta, quindi, l’informazione di Aristotele sul periodo dell'interrotta deposizione e sulla maggiore produzione dei soggetti giovani: la diversità tra il periodo di produzione di allora e di oggi, ha il motivo nei diversi interessi economici. Nella pollicoltura moderna, i soggetti, che, nel ciclo annuale, si rivelano di produzione bassa (inferiore alle 100 uova), vengono eliminati dall'allevamento; anticamente, però, un soggetto, che produceva 60 uova, era ritenuto una buona ovaiola.

Non comprendiamo, rispetto alla produzione di uova, la distinzione che Aristotele pone tra le Galline di razza e le comuni. Sarebbe stata necessaria una precisazione ed anche la conoscenza della razza. Certo è che per il miglioramento dell'allevamento, che dia una maggiore produzione di uova, si sarebbe mostrato più utile e vantaggioso l’impiego di un gallo di pura razza, discendente da un buon ceppo per l’accoppiamento con le galline comuni, ad es., le nostrane, onde ottenere l’aumento della resa media dei discendenti.

Plinio vorrebbe assicurarci che nei dieci giorni dall'accoppiamento, le uova maturano nell'interno del corpo, ma più a lungo, se la Gallina è tormentata, sradicandole qualche piuma o procurandole altro danno simile:

A coitu X diebus ova maturescunt in utero, vexatis autem gallinae et columbae pinna evulsa aliave simili iniuria diutius. (X,147)

Dopo l’accoppiamento le uova giungono a maturazione nell’utero in 10 giorni, ma più lentamente se gli animali vengono tormentati, se viene strappata qualche penna alla gallina e alla colomba, o se vien fatta loro qualche altra violenza simile.

Ci pare che Plinio non abbia compreso Aristotele. Questi assicura che l’uovo della Gallina si forma e raggiunge il suo sviluppo generalmente nei dieci giorni che seguono l’accoppiamento, ma non dice affatto che la Gallina maturi più a lungo l’uovo se viene tormentata; anzi, trattando della sola colomba osserva che, se la femmina è disturbata in qualche modo, o se si va intorno al nido, o se le si sradica una piuma, o se essa ha altra ragione di ricevere un male o di spaventarsi, trattiene l'uovo che sta per deporre e non lo depone affatto.

La nota aristotelica circa la formazione dell'uovo è imprecisa e non può essere accettata scientificamente, in quanto la formazione richiede lungo tempo. Ma la nostra attenzione deve rivolgersi a scoprire il valore di in utero di Plinio. Se il naturalista latino si è informato alla nota aristotelica ed ha attribuito alla Gallina il comportamento della colomba, che trattiene le uova, dovremmo pensare che uterus non può significare ovario, che è la traduzione del De Saint-Denis, ma, piuttosto, la "camera del guscio", dove l’uovo resta, per qualche tempo, prima di essere deposto, e si riveste dell'involucro calcareo. Ma, dati i limiti scientifici di Plinio, non possiamo credere che egli usi una precisa terminologia scientifica, per cui è molto probabile che con il nome uterus abbia voluto significare l’apparato riproduttore o, più genericamente, l’interno del corpo.

Plinio riferisce che certe Galline non depongono che uova a due tuorli, da cui nascono talvolta due pulcini, di cui l’uno è maggiore dell'altro, secondo Celso. Altri, invece, negano assolutamente la schiusa di pulcini gemelli: Quaedam gallinae omnia gemina ova pariunt et geminos interdum excludunt, ut Cornelius Celsus auctor est, alterum maiorem; aliqui negant omnino geminos excludi.(X,150)

Aristotele si sofferma a trattare della schiusa delle uova con due rossi. Assicura che si son fatte osservazioni sul rosso delle uova doppie e riporta l’esempio di una Gallina, che, avendo deposto diciotto uova con due tuorli, ha fatto schiudere, ad eccezione delle uova chiare, dei pulcini gemelli, di cui l’uno era più grande dell'altro, ed un mostro nella schiusa dell'ultimo uovo.

La nostra esperienza conferma la nascita di pulcini gemelli, che perirono appena venuti alla luce, ma la nostra osservazione non nega il fatto ornitico, rilevato da Aristotele. Egli dà la seguente spiegazione sulla mostruosità dei pulcini: la nascita di pulcini distinti avviene quando i bianchi sono separati dalla membrana; se questi sono vicini senza alcuna separazione, si verificano casi di mostruosità: pulcini con un solo corpo e una sola testa, ma con quattro zampe e quattro ali.

Plinio, prima di inoltrarsi a trattare della cova, senza contraddirsi affatto sul periodo della deposizione, determina l’inizio della produzione delle uova dal solstizio di inverno: Parere a bruma incipiunt. Indi, afferma che le migliori covate si fanno prima dell'equinozio di primavera; i pulcini, però, nati dopo il solstizio di estate, non raggiungono la taglia normale e tanto meno la raggiungono quanto più tardi sono schiusi dal guscio: optima fetura ante vernum aequinoctium; post solstitium nata non implent magnitudinem iustam tantoque minus, quanto serius provenere.

Varrone (III,9,9) è di avviso contrario: optimum esse partum ab aequinoctio verno ad autumnale, sono ottime le nascite che si verificano dall’equinozio di primavera a quello d’autunno.

Columella (VIII,5,1) ammette che le Galline, a seconda delle regioni di clima più mite o freddo, incominciano a deporre intorno alle calende di Gennaio e dopo le idi: Confecta bruma parere fere id genus avium consuevit. Atque earum quae sunt fecundissimae, locis tepidioribus circa calendas Januarias ova edere incipiunt; frigidis autem regionibus eodem mense post idus.

È molto utile, secondo Plinio (X,151), far covare uova deposte non dopo 10 giorni, giacché uova o troppo vecchie o troppo fresche sono infeconde: Ova incubari intra decem dies edita utilissimum; vetera aut recentiora infecunda.

Columella (VIII,5,4) scrive al riguardo: Aptissima porro sunt ad excludendum recentissima quaeque. Possunt tamen etiam requieta supponi, dum ne vetustiora sint quam dierum decem.

Ancora oggi si ritengono migliori le uova deposte da non più di una settimana o, al massimo, da dieci giorni.

Plinio consiglia di affidare alla gallina uova in numero dispari: Subici inpari numero debent; il consiglio è pure di Varrone: In supponendo ova observant, ut sint numero imparia, e di Columella: Numerus ovorum, quae subiciuntur, impar observatur, nec semper idem. Il naturalista latino (X,150) aveva prima ricordato che, secondo alcuni allevatori, non si devono affidare alla chioccia più di venticinque uova: Plus vicena quina incubanda subici vetant; lo stesso divieto si legge in Varrone (III,9,8): Quae velis incubet, negant plus XXV oportere ova incubare.

Columella prescrive il numero delle uova da covare, a seconda dei mesi [11] :

Nam primo tempore, id est mense Ianuario, quindecim, nec unquam pluro subici debent: Martio, XIX, nec his pauciora: unum et viginti Aprili: tota deinde aestate usque in calendas Octobris totidem. (VIII,5,8)

Inizialmente, cioè in gennaio, 15, e non bisogna mai metterne sotto alla gallina più di tanto: in marzo si può salire a 19 e non meno di questo numero: 21 in aprile: quindi, per tutta l’estate e fino alle calende di ottobre, la stessa quantità.

Nella pollicoltura rurale di oggi, di norma, si consiglia per la cova 9-11 uova (peso 55-60 grammi) e anche 12-15.

Plinio, quindi, passa a trattare del controllo delle uova, messe a incubare, mediante il processo della speratura:

Quarto die postquam coepere incubari, si contra lumen cacumine ovorum adprehenso ima manu purus et unius modi perluceat color, sterilia existimantur esse proque eis alia substituenda. (X,151)

Il quarto giorno dall’inizio della cova, se guardando contro luce tenendo la sommità dell’uovo con la punta delle dita, si intravede un colore puro e uniforme, va ritenuto sterile e bisogna sostituirlo con un altro uovo.

La speratura, secondo le modalità prescritte da Plinio, era già conosciuta da Varrone (III,9,12):

Ova, quae incubantur, habeantne semen pulli, curator quadriduo post quam incubari coepit intellegere potest. Si contra lumen tenuit et purum unius modi esse animadvertit, putant eiciendum et aliud subiciundum.

Le uova in corso d’incubazione, se hanno oppure no l'embrione del pulcino, colui che le accudisce comincia a capirlo dopo quattro giorni d’incubazione. Se, dopo averle messe contro luce, si è accorto che ha un colore puro e uniforme, si ritiene che l’uovo debba essere gettato per metterne sotto un altro.

Plinio ci informa su una seconda prova: se si pone l’uovo in acqua, vuoto sta a galla, pieno cade sul fondo: Et in aqua est experimentum: inane fluitat, itaque sidentia, hoc est plena, subici volunt. (X,151)

Varrone, però, aveva già preceduto Plinio in questa seconda forma di controllo: Ova plena sint atque utilia necne, animadverti aiunt posse, si demiseris in aquam, quod inane natet, plenum desidit (III,9,11).

Infine, Plinio ricorda il divieto di scrollare l’uovo, perché diverrebbe sterile, qualora i canali necessari alla vita fossero stati confusi: Concuti vero experimento vetant, quod non gignant confusis vitalibus venis. (X,151)

Lo stesso avvertimento si legge anche in Varrone: Qui ut hoc intellegant concutiant, errare, quod vitales venas confundant in iis. (III,9,11)

La speratura è ancor oggi un mezzo di controllo delle uova da covare. L'operazione è identica; la si pratica, però, al 5°-6° giorno d'incubazione e la si rinnova al 15°-18° giorno.

Al 5°-6° giorno, si nota la presenza, nell'uovo fecondato, di una macchia nera stelliforme e mobile qualora l’uovo sia sottoposto a leggeri movimenti oscillatori: quello infecondo è chiaro, e quello con embrione morto, non ricordato da Plinio, presenta la placca embrionale fissa. Al 18° giorno l’uovo alla speratura appare completamente scuro, ed il contorno dell'embrione è ben delimitato, la camera d'aria assai ingrandita. II motivo per cui gli antichi raccomandavano di sostituire le uova riconosciute non feconde consiste nel fatto che la loro putrefazione impedisce l’aerazione delle sane e fa morire, anche in queste, l’embrione.

Dobbiamo, però, precisare che cosa siano le vitales venae di Varrone e di Plinio, le quali, come afferma il De Saint-Denis, sono i condotti venosi di Aristotele. Le vitales venae sono le ramificazioni, i filamenti, che partono dalla macchia più scura al centro (cuore) e cioè le arterie e le vene del pulcino.

Plinio, riassumendo Aristotele, descrive la formazione del pulcino; più precisamente diremo che da Aristotele trae le osservazioni sul cuore e sui suoi movimenti:

Omnibus ovis medio vitelli parva inest velut sanguinea gutta, quod esse cor avium existimant, primum in omni corpore id gigni opinantes: in ovo certe gutta ea salit palpitatque. (X,148)

Al centro del tuorlo di ogni uovo si trova come una piccola goccia di sangue che si crede sia il cuore degli uccelli, in quanto si ritiene che questo venga generato per primo in qualunque organismo: nell’uovo sicuramente quella goccia pulsa e palpita.

oltre che sulla formazione del corpo dal bianco dell'uovo ipsum animal ex albo liquore ovi corporatur e sul nutrimento che vien dal giallo cibus eius in luteo est, trascurando il mezzo (cordone ombelicale) per cui esso giunge.

Plinio (X,148), non ritenendo necessaria l’informazione di Aristotele sulla data in cui si può riconoscere il pulcino con tutti i suoi organi, passa a tradurre la nota sulla struttura della testa e degli occhi: omnibus intus caput maius toto corpore, oculi conpressi capite maiores. Quindi, interpreta, senza tener conto della descrizione minuziosa di Aristotele, la nota che riguarda le due posizioni del giallo e del liquido bianco all'interno dell'uovo. Scrive Plinio: Increscente pullo candor in medium vertitur, luteum circumfunditur.

Il naturalista latino, non ritiene utile riassumere la prosecuzione della nota di Aristotele e, saltando 14 righe (forse di contenuto difficile), si sofferma a dirci che il pulcino, al 20° giorno, se l’uovo viene un po' agitato, emette, all'interno del guscio, un pigolio; dalla stessa data, esso comincia a coprirsi di piumino; la testa posa sulla zampa destra, l’ala destra sulla testa; il giallo diminuisce poco a poco: Vicesimo die si moveatur ovum, iam viventis intra putamen vox auditur; ab eodem tempore plumescit, ita positus ut caput supra dextrum pedem habeat, dextram vero alam supra caput. Vitellus paulatim deficit. La nota è derivata da Aristotele.

Columella (VIII,5,14) consiglia di fare attenzione se i pulcini al 19° giorno becchino le uova e di ascoltare se pigolino:...die undevigesimo animadverterat an pulli rostellis ova pertuderint, et auscultetur, si pipiant.

Plinio, che, riaffermando un'antica tradizione rustica, giunta sino a noi, fa incominciare l’incubazione dopo la luna nuova, perché, se essa viene iniziata prima, non riesce Incubationi datur initium post novam lunam, quia prius inchoata non proveniunt, riprendendo Aristotele ci tramanda che la schiusa , più rapida nel tempo caldo, avviene, in estate al 19° giorno, in inverno al 25°: Celerius excluduntur calidis diebus; ideo aestate undevicensimo educent fetum, hieme XXV. (X,152)

Le osservazioni sui giorni dell'incubazione sono di troppo facile esperienza per essere negate; tuttavia, secondo le nostre conoscenze, i pulcini nascono 21 giorni dopo che le uova sono affidate alla chioccia.

Plinio non intende rinunciare a riferire notizie di poca credibilità, soprattutto se sono ricordate da Aristotele. Il filosofo viene imitato, anzi tradotto, nella seguente nota:

Si incubitu tonuit, ova pereunt, et accipitris audita voce vitiantur. (X,152)

Se tuona durante la cova, le uova vanno perdute; e se si ode la voce dello sparviero diventano guaste.

Plinio conosce pure i rimedi contro il tuono: si mette sotto la paglia del nido un chiodo di ferro o della terra staccata da un aratro: Remedium contra tonitrus clavus ferreus sub stramine ovorum positus aut terra ex aratro. (X,152)

Columella riferisce le esperienze altrui e ne ricorda i mezzi usati: Plurimi etiam infra cubilium stramenta graminis aliquid et ramulos lauri, nec minus alii capita cum clavis ferreis subiciunt: quae cuncta remedio creduntur esse adversus tonitrua, quibus vitiantur ova. (VIII,5,12)

Suscita un certo interesse scientifico l’osservazione aristotelica sulla schiusa spontanea delle uova, che dovrebbe riguardare altri uccelli e non le Galline; Aristotele, infatti, dopo aver asserito che le uova schiudono con l’incubazione degli uccelli, in una descrizione a carattere generale, aggiunge che esse possono anche schiudersi spontaneamente nella terra, come in Egitto, se vengono sepolte nel letame. Riporta, poi, l’esempio di un ubriaco, che, avendo posto delle uova in terra sotto la stuoia, non cessò di bere, a quanto si dice, finché le uova non si fossero schiuse.

Secondo la nostra interpretazione, Aristotele avrebbe trattato di uccelli, a noi sconosciuti, ma simili, nella nidificazione, forse, agli Struzzi, o ai Megapodi  della regione australiana i quali né covano le uova né sono parassiti. Questi uccelli formano dei grandi cumuli di sostanze vegetali e di terra sotto i quali depongono le uova, da cui nascono i pulcini per il calore che si sprigiona dalle materie ammassate, le quali fermentano e si decompongono. Le uova sono però voluminose, sicché i nati hanno uno sviluppo tale che, appena usciti, possono già volare per brevi tratti.

Anche se il letame, in decomposizione, può produrre calore, non riteniamo che Aristotele si sia riferito, per la schiusa, alle uova di Gallina, dalle quali, pur ammesso che esse possano sgusciare, escono pulcini che hanno bisogno di godere di una temperatura non certamente inferiore ai 25 °C.

Plinio, dilettandosi di riferirci mira, piuttostoché di rispettare l’ordine ed il fine della descrizione aristotelica, inserendo la nota sulla schiusa spontanea delle uova in paragrafi dedicati alla Gallina, ci fa, almeno, sospettare che egli limitasse e restringesse il concetto della nascita di pulcini alle sole Galline, se pensa che le di loro uova possano schiudersi senza l’incubazione della chioccia, quantunque l’indefinito quaedam: quaedam autem et citra incubitum sponte naturae gignunt, ut in Aegypti fimetis, non determina la specie delle uova, che, al contrario, la collocazione dell'osservazione nel testo ornitico definisce. Ma, pur ammettendo che l’indefinito voglia esprimere uova di altra specie o genere, dovrebbe sorprendere un Plinio che includa nella lunga descrizione della cova delle Galline delle informazioni del tutto estranee alla materia che tratta.

Plinio non può tralasciare, e con compiacenza, l’episodio dell'ubriaco di Siracusa, che Aristotele riferisce come narrazione altrui [12]

Scitum de quodam potore reperitur Syracusis tam diu potare solitum, donec cooperta terra fetum ederent ova, (X,153)

È noto di un beone, che a Siracusa era solito bere tanto a lungo, quanto ne occorreva per la schiusa di uova coperte di terra.

perché gli pare, forse, una nuova documentazione della schiusa spontanea prima di passare a dimostrare: et ab homine perficiuntur, e viene ottenuta anche dall’uomo, narrando come l’imperatrice Giulia gravida abbia tratto buoni auspici, per il desiderio di un figlio maschio, da un uovo conservato nel caldo suo seno e affidato al seno della nutrice perché non si raffreddasse:

Quin et ab homine perficiuntur. Iulia Augusta prima sua iuventa Tib. Caesare ex Nerone gravida, cum parere virilem sexum admodum cuperet, hoc usa est puellari augurio, ovum in sinu fo­vendo atque, cum deponendum haberet, nutrici per sinum tradendo, ne intermitteretur tepor; nec falso augurata proditur. (X,154)

Anzi, anche dall’uomo vengono condotte a maturazione. Giulia Augusta, nella sua prima giovinezza, quando aspettava Tiberio Cesare dalle sue nozze con Nerone, poiché desiderava assolutamente di mettere al mondo un maschio, si servì di questo metodo di pre­dizione, tipico delle giovani donne: scaldava un uovo nel suo seno e, quando lo doveva deporre, lo dava a una nutrice che a sua volta lo mettesse in seno, perché non venisse meno il calore; si tramanda che questo tipo di augurio non si rivelò fallace.

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Giulia Augusta, cioè Livia Drusilla poi moglie di Augusto, aveva sposato in prime nozze l'uomo politico romano Tiberio Claudio Nerone col quale aveva concepito Tiberio, il futuro imperatore.

L’episodio narrato da Plinio si riferisce a questa gestazione: il pulcino che nacque era maschio come lo sarebbe stato il figlio.

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L'augurium puellare, i vaticini sui nascituri, offre il motivo a Plinio per scoprire la possibile causa della nuova scoperta di mantenere al caldo, con un fuoco a temperatura moderata, uova poste sulla paglia, in un luogo riscaldato: le uova, rivolte da un uomo, sgusciano tutte insieme nel giorno fissato: Nuper inde fortassis inventum, ut ova calido in loco inposita paleis igne modico foverentur homine versante, pariterque et stato die illinc erumperet fetus. (X,154)

La scoperta, la quale, così come è descritta, è possibile per avere la schiusa in qualsiasi periodo dell'anno, al posto dell'incubazione naturale, è piuttosto il frutto di esperienza per ottenere un maggior numero di pulcini, anche a fini commerciali, specie negli ornithones, i negozi di volatili.

Plinio non pare ancora pago di istruirci sui mira. Vuole, infatti, ricordarci l’abilità di un allevatore di riconoscere di quale Gallina fosse ciascun uovo Traditur quaedam ars gallinarii cuiusdam dicentis quod ex quaque esset, la sostituzione dei Galli nell'adempimento di tutte le funzioni della madre morta Narrantur et mortua gallina mariti earum visi succedentes in vicem et reliqua fetae more facientes abstinentesque se cantu. La notizia è tratta da Aristotele.

Dalla comparazione dei testi risulta evidente come Plinio interpreti la partecipazione dei maschi alla cura dei piccoli (succedentes in vicem) e come riassuma gli uffici materni con il pronome reliqua.

E, per concludere, come è admiratio per Cicerone (De natura deorum, II,124) che gli anatroccoli, nati da uova affidate alla Gallina, allevati, abbandonano e fuggono la covatrice che li insegue, quando possono vedere l’acqua, loro sede naturale...anitum ova gallinis saepe supponimus; e quibus pulli orti primo aluntur ab iis ut a matribus, a quibus exclusi fotique sunt, deinde eas relinquunt et effugiunt sequentes, cum primum aquam quasi naturalem domum videre potuerunt, così per Plinio:

Super omnia est anatum ovis subditis atque exclusis admiratio prima non plane agnoscentis fetum, mox incerti singultus sollicite convocantis, postremo lamenta circa piscinae stagna mergentibus se pullis natura duce.(X,155)

Soprattutto destano grande meraviglia le uova di anatre messe a covare sotto una gallina e che si schiudono lasciando venire alla luce un feto che risulta non del tutto familiare, e poi ci sono gli incerti singhiozzi di lei che li richiama con sollecitudine, infine passa a lamenti quando, stando intorno allo specchio d’acqua, vede che i pulcini si tuffano guidati dall’istinto naturale.

Culinarum Artes

Le Galline venivano ingrassate. I primi a usare la tecnica dell'ingrasso furono gli abitanti di Delo; nacque, quindi, secondo Plinio, la contagiosa e quanto mai funesta abitudine di cibarsi di pollame grasso intriso del suo succo. Plinio trova il divieto di questo cibo già fra le antiche leggi che ne limitano gli eccessi, la legge del console Gaio Fannio, undici anni prima della terza guerra punica, la quale prescriveva di non porre sulla mensa pollame, che non fosse una sola Gallina non ingrassata. Ma, fatta la legge, trovato l’inganno: le Galline furono sostituite con giovani Galli nutriti con alimenti inumiditi con latte. Non viene specificato se si trattava di latte scremato, poiché il latte acido nel cibo difende i pulcini dalla coccidiosi e da molte altre malattie. Non tutte le Galline sono atte all'ingrassamento, ma soltanto gli individui che abbiano grassa la pelle del collo. L'arte culinaria insegnerà, infine, come presentare i piatti, che facciano buona vista, malgrado non sempre piaccia tutto un solo pezzo, poiché qui si vanta la coscia, altrove il petto.

Gallinas saginare Deliaci coepere, unde pestis exorta opimas aves et suopte corpore unctas devorandi.

Furono gli abitanti di Delo che cominciarono a ingrassare le galline, e da questo ebbe origine la pessima abitudine di mangiare pollame grasso, unto del suo stesso grasso.

Hoc primum antiquis cenarum interdictis exceptum invenio iam lege Gai Fanni consulis undecim annis ante tertium Punicum bellum, ne quid volucre poneretur praeter unam gallinam quae non esset altilis, quod deinde caput translatum per omnes leges ambulavit.

Fra gli antichi divieti riguardanti le portate, per la prima volta già nella legge del console Gaio Fannio, stilata 11 anni prima della terza guerra punica [161 aC], trovo la proibizione di non porre in tavola alcun volatile, tranne una sola gallina non ingrassata; questo articolo fu in seguito ripreso e passò da una legge all’altra.

Inventumque deverticulum est in fraudem earum gallinaceos quoque pascendi lacte madidis cibis: multo ita gratiores adprobantur. Feminae quidem ad saginam non omnes eliguntur nec nisi in cervice pingui cute.

Si trovò una scappatoia per ingannare queste leggi allevando anche i galli con cibo inzuppato nel latte: vengono così considerati di sapore molto più raffinato. A dire il vero, non tutte le galline vengono scelte per essere ingrassate, ma solo se hanno la pelle grassa sul collo.

Postea culinarum artes, ut clunes spectantur, ut dividantur in tergora, ut a pede uno dilatatae repositoria occupent. Dedere et Parthi cocis suos mores. Nec tamen in hoc mangonio quicquam totum placet, clune, alibi pectore tantum laudatis. (X,139-140)

Poi intervennero le arti culinarie perché le cosce si presentassero bene, perché fossero piegate dalle due parti del dorso, perché tirate a partire da una zampa occupassero tutto il piatto di portata. Persino i Parti hanno dato ai cuochi le loro usanze. Tuttavia, in questo modo di abbellire le portate, non tutto è gradito allo stesso modo, in quanto viene decantata la coscia, in altri posti solamente il petto. [13]

Malattie

La malattia più funesta per il pollame è la pipita [14] , la quale colpisce gli animali nella stagione che sta tra la mietitura e la vendemmia.

Questa malattia sarebbe caratterizzata dall'ispessimento dell'epitelio del dorso della lingua, causata dall'ingerimento di cibi guasti e anche caldi. Palladio (Opus agriculturae, I,27) accenna appena alla sintomatologia: Pituita his nasci solet, quae alba pellicula linguam vestit extremam. Ed ecco le ricette di Plinio:

Medicina in fame et cubitus in fumo, utique si e lauru aut herba sabina fiat, pinna per traversas inserta nares et per omnes dies mota; cibus alium cum farre aut aqua perfusus, in qua maduerit noctua, aut cum semine vitis albae coctus ac quaedam alia. (X,157)

Il rimedio consiste nella dieta e nell’affumicare il pollaio, specialmente con alloro o con erba sabina, si inserisce una penna attraverso le narici e la si muove tutti i giorni; il cibo deve essere costituito da aglio con farro o da un infuso fatto con acqua in cui si sia bagnata una civetta, oppure cotto con semi di vitalba e altre ricette ancora.

Uso delle uova in medicina

Il capitolo XI del libro XXIX documenta come le uova costituissero varie ricette contra epiphoras e altri disturbi e malanni.

Fig. VIII. 27 - Mosaico romano del I secolo aC appartenente alla Burrel Collection Pollok Country Park di Glasgow. La tipologia di questo gallo è prettamente mediterranea.  Columella visse nel I secolo dC. Ma verrebbe da pensare che questo mosaico sia stato eseguito dopo la lettura di quanto egli successivamente affermò nel De re rustica sul probabile antenato della Livorno: "I polli da cortile hanno piume rossicce oppure nerastre, mentre le penne sono nere, le creste rutilanti ed erette, gli orecchioni bianchi e grandi, i bargigli soffusi di bianco e che ricadono come la barba di una persona attempata."

I Veneti giunsero dalla Paflagonia

Dal Corriere della Sera - giovedì 12 luglio 2001

Dal Nord dell’Anatolia, tremila anni fa, sarebbero partiti per colonizzare la parte orientale della Pianura padana  

Veneti in pellegrinaggio dai cugini turchi

Delegazione partirà in bici dal Padovano fino a Bartin: «Facciamo a ritroso il viaggio dei nostri avi»

Ce lo dice per primo Omero, che nell’Iliade (II, 851-852) racconta come fossero arrivati a Troia in soccorso di Priamo contro Agamennone, Ulisse, Aiace Talamonio e tutti i greci che cingevano d’assedio la città: «Guidava i Plafagoni il cuore forte di Pilemene dalla terra degli Eneti dove nasce la razza delle mule selvagge».

Che si tratti proprio dei Veneti, anche se non manca una corrente storica che individua una loro origine slava «nello spazio tra il Mar Baltico e la Vistola, tra il Danubio e il corso medio del Dnjepr», pare non ci siano dubbi. Chiamati dai greci «Ovenetoi», mantengono per secoli una solida fama che, abbinata a quella dei cavalli (celebrata da Alcmane), rimbalza da Polibio e Ecateo, da Euripide a Strabone. Persa male la guerra di Troia, cacciati dalla loro terra, rimasti senza guida per la morte in battaglia di Pilemene, Tito Livio ci racconta che i veneti non vedono alternativa se non lanciarsi nella prima emigrazione della loro storia. Risalendo con Antenore le coste mediterranee fino ad arrivare «in intimum maris Adriatici sinum», cioè nelle estreme acque settentrionali dell’Adriatico, in quello che verrà chiamato il Golfo di Venezia. Dove Antenore, nel 1184 avanti Cristo, fonda Padova.

Che i veneti si considerino ridendo dei «fioi de Troia», non è una novità. Che diano il meglio con le «mule selvagge», come possono testimoniare i triestini, non lo doveva dire Omero. E che il padovano Tito Livio, da buon cantore delle glorie romane e patavine, vada preso con le pinze, si sa. Ogni cosa tuttavia, può cambiare di senso a seconda del contesto. Fatto è che, in questi tempi in cui i Veneti sono ciucchi di trionfi economici e comprano pezzi d’America (Leonardo del Vecchio) e d’Argentina (Luciano Benetton) e venerano commossi la ciliegia marosticana e la castagna di Combai e il pisello di Pianiga, la riscoperta della Paflagonia sta montando giorno dopo giorno.

Della mitica terra, non a caso inserita da Gianni Guadalupi e Alberto Manguel nel «Dizionario dei luoghi fantastici», si sa poco. Narrava un secolo e mezzo fa M.A.Titmarsh ne «La rosa e l’anello», che l’aspetto del Paese era poco noto ma «famoso il suo codice di punizioni e ricompense». Che i rei giravano «fustigandosi con maggiore o minore severità», che le buone azioni erano «ricompensate col Cucchiaio di legno» e che la decorazione più ambita era «l’Ordine del Cetriolo, che può procurare un elevato incarico a corte, come "Primo Lord del Tavolo da Bigliardo" o "Gentiluomo del campo da tennis"».

L’ordine del cetriolo, i veneti si rassegnino, non esiste. La Paflagonia, però, c’è davvero. È un territorio a metà tra la collina e l’altopiano. Grandi spazi, grandi alberi, grandi panorami. Case antiche in legno di stile greco o ottomano. Campi coltivati. Tetti rossi. Prati. Ruscelli. E in mezzo il fiume Bartin, «uguale al Brenta», dice già Mujdat Yesildag, l’imprenditore promotore della spedizione grazie all’aiuto del Rotary Club turco. Un fiume che nell’epoca romana pare si chiamasse Bitinia e che con le sue acque placide ha sempre avuto la funzione di porto per la cittadina alla quale dà il nome, capoluogo dell’area.

Pochi chilometri più in là, ai piedi delle montagne e spalancata sul mar Nero, c’è Amasra. Porto greco, romano, genovese, bizantino. Bellissima. Arricchita da un malandato ma stupendo forte medievale e da un sacco di aree archeologiche dove basta affondare la pala per tirar su reperti straordinari. Abitata da «parenti» dai baffi enormi, dalla risata contagiosa e da una insaziabile fame di carne alla brace che divorano sentendo una musica più assordante del motore dei pescherecci.

Anche loro non sapevano niente della Paflagonia: «Mai sentita nominare prima!», confessa allegro il sindaco. Quando gli hanno detto la prima volta che un gruppo di veneti di Fontaniva, Padova, trainato da un imprenditore con un nome da emigrante quale Amerigo (Sartore) e l’uzzolo del mecenate, si era messo in testa di promuovere in bicicletta e a ritroso il viaggio compiuto dai bisnonni, non ci voleva credere.

Poi gli hanno spiegato che i cugini, passati dall’allevamento dei cavalli alla metalmeccanica o al tessile, hanno cancellato una povertà che mezzo secolo fa non era poi così diversa da quella dell’Anatolia. Che i trevisani hanno depositi bancari di 160 milioni a famiglia, che i vicentini esportano 23 milioni pro capite, che i padovani dominano il mercato mondiale della calzatura d’élite, che i veronesi sono i padroni planetari del marmo... E l’entusiasmo è diventato febbrile.

Quanto ai pellegrini, il gruppetto in partenza, guidato da Ugo Silvello, doveva essere composto da una decina di pionieri ma c’è chi scommette che il numero, con l’aria che tira, sia destinato a montare e montare. I precedenti, diciamola, non sono buoni. Si pensi alla spedizione dell’antropologo Ernst Shaefer organizzata nel 1938 dall’Ahnenerbe, l’istituto voluto delle SS per studiare le origini della razza ariana, in Tibet, mitico luogo di presunta provenienza. I nostri fanno spallucce: alla larga da idiozie del genere. Peccato solo che quando arriveranno, a metà agosto, sarà passata la stagione delle fragole. Ci fanno anche una sagra, «proprio come le sagre venete». Ed eleggono pure una «Miss Fragola». Certe mule che anche Omero...  

 sommario 

 avanti 


[1] Così la pensa Capponi forse per la cresta doppia di cui parlerà tra poco Plinio. Io invece, stando alla pura descrizione del vernaculum genus di Columella, propendo per una Livornesoide pentadattila. È alquanto difficile esprimere una diagnosi di razza basandosi sulle caratteristiche morfologiche di un ciuffo e sul numero di creste. Ci renderemo conto di ciò quando affronteremo la genetica del ciuffo e dei tipi di cresta che ad esso si associano.

[2] L’unico Facchinetti contemporaneo di Aldrovandi del quale ho trovato notizie è Giovanni Antonio (Bologna 1519 - Roma 1591), Papa col nome di Innocenzo IX dall'ottobre al dicembre del 1591. Le origini della famiglia Facchinetti erano veronesi.

[3] Vomano: fiume dell'Abruzzo lungo 75 km, tributario del Mare Adriatico. Nasce dal versante occidentale del Gran Sasso d'Italia (monte San Franco) e scende scorrendo tra le pendici settentrionali di questo gruppo montuoso e quelle meridionali dei Monti della Laga, bagnando Montorio al Vomano e Villa Vomano, per poi sfociare in mare tra Roseto degli Abruzzi e Pineto.

[4] Secondo Antonella Ghibaudi al possessivo suis potrebbe essere sottinteso verbis, per cui traduco con stando alle sue parole. Però, dato che in un altro passo, che citeremo tra poco, Alberto asserisce che presso i suoi conterranei tali galline venivano definite grandi “...et apud suos magnas vocari ait”, questo punto potrebbe essere così tradotto: che verrebbero definite di grandi dimensioni dai suoi conterranei.

De generatione animalium III 749b-750a - Historia animalium VI 558b. - Filippo Capponi in Ornithologia Latina (1979), quando tratta delle galline di Hadria, cita in greco il brano di Aristotele tratto da Historia animalium VI 558b e riporta l’aggettivo Adrianaí a proposito di queste galline. L’aggettivo Adrianós è usato, per esempio, da Dionigi d’Alicarnasso (retore e storico greco del I sec. aC) per indicare il mare Adriatico (Romanae Antiquitates, II 4), mentre non comparirebbe in Aristotele, il quale avrebbe invece usato due diversi aggettivi equivalenti: Adriatikós (Historia animalium, VI 558b) e Adrianikós (in De generatione animalium 749b 29 si legge: tôn alektorídøn ai Adrianikaí; in Historia animalium VI 1, 558b 16 Ai d’Adrianaí alektorídes (qui adrianikaí è alia lectio dei codici PDa)); cfr. anche Ateneo VII 285d (polli adriatici). § A mio avviso la bagarre relativa a questo aggettivo è stata scatenata dagli amanuensi. Infatti in Historia animalium (1619) di Giulio Cesare Scaligero troviamo Adrianikaí. Ci vuole un nonnulla per scrivere Adrianikaí invece di Adriatikaí: basta uno scambio tra n e t e il gioco è fatto. Bisognerebbe resuscitare Aristotele!

Aldrovandi non ha capito una minchia di quanto riferito da Gessner, né si è preso la briga di dare uno sguardo al commento di Agostino Nifo. Infatti molto prima della sua invettiva contro Alberto, sempre a pagina 157 di Expositiones in omnes Aristotelis libros (1546) Agostino Nifo esprime il sospetto che le galline Adrianae furono così chiamate in quanto viste dall'imperatore Adriano: fortassis ab Adriano Imperatore observatae. – Quindi l'illazione Adrianae = fortassis ab Adriano Imperatore observatae non è di Alberto, ma di Nifo. Alberto conosceva galline giganti che erano dette del Re Adriano, e di quale re Adriano si tratti nessuno per ora lo sa.

[5] L’Efesino è Michele di Efeso, filosofo bizantino vissuto fra l’XI e il XII secolo dC, commentatore di Aristotele. - Augustinus Niphus Expositiones in omnes Aristotelis libros (1546) pag. 157: Albertus [...] Etiam id, quod secundo loco asserit, longe deterius est, cum dicat gallinas adrianicas esse magno, & oblongo corpore, cuius oppositum Arist. & eius expositor Ephesius in scholijs tradiderunt.

L'olandese è una lingua germanica occidentale parlata in Olanda e derivata dai dialetti del basso germanico dei Franchi e dei Sassoni. Fino al 1600 anche le parole in olandese erano dette germaniche, in quanto con germanico – o tedesco - si indicava tutto ciò che non era latino. Per cui in questo caso è corretto tradurre Germanice con “in olandese” anziché con “in tedesco”, in quanto kriel è un vocabolo prettamente olandese mentre il suo equivalente tedesco è zwerg. – L'input per questa precisazione mi è giunto grazie all’acume del Dr Stefano Bergamo che da alcuni lustri respira aria olandese e magari ogni tanto si abbuffa di patatine kriel. Infatti così mi ha precisato in una e-mail del 2 maggio 2006: "Kriel indica la nanezza in genere, si usa anche per le patatine rotonde che si consumano piccolissime (dimensioni max come una ciliegia)." - Tedesco deriva dall'antico germanico theodisk che significa del popolo, a sua volta derivato dal protogermanico *theudo = popolare, nazionale. Theodisk esprimeva una contrapposizione alla lingua usata dal ceto colto, cioè il latino, e in tedesco moderno è diventato Deutsch. Anche l'inglese Dutch = Olandese riconosce la stessa etimologia di Deutsch. Solo che l'inglese Dutch, usato per la prima volta intorno al 1380, inizialmente indicava tutti quanti i Tedeschi, e solo dopo il 1600 cominciò a indicare solo gli Olandesi, quando nel 1579 si erano uniti in uno Stato indipendente: con la proclamazione dell'Unione d'Utrecht del 1579 l'Olanda entrò a far parte della Repubblica delle Province Unite e la sua capitale L'Aia divenne in pari tempo la capitale della Repubblica. L'Unione di Utrecht consisteva nell'alleanza politico-militare delle province settentrionali dei Paesi Bassi (Olanda, Zelanda, Utrecht, Overijssel, Frisia, Gheldria, Groninga), conclusa appunto nel 1579. Nel 1581 l'Unione si organizzò in Confederazione repubblicana indipendente sotto la guida di Guglielmo di Orange-Nassau.

Se vogliamo attribuire a modo il significato di "come" - essendo ablativo di modus - allora modo regge il genitivo. Se accettiamo macula invece di un genitivo maculae, allora modo va tradotto con "appena" essendo un avverbio. Si opta per la prima soluzione per ovvi motivi cromatici e sintattici, anche se il testo originale di Ermolao Barbaro riporta sia anemonae che macula. – Corollarium in Dioscoridem (1516): ccliii Gallinaceus - [...] calcaria & apex anemonae floris macula modo rubent. [...]

[6] Aristotele 384-322 aC; imperatore Adriano 76-138 dC.

[7] Vorrei ringraziare con queste poche righe la Signora Miriana Di Angelo Antonio - Bollettino della Società Geografica Italiana, Roma - per aver condotto le ricerche con estrema sollecitudine e precisione. L’opera del Magini porta il numero 702 d’inventario e il frontespizio recita così: Geografia cioè Descrittione Universale della Terra partita in 2 volumi, nel primo de’ quali si contengono gli 8 libri della Geografia di Cl. Tolomeo, nuovamente con singolare studio rincontrati & corretti dall’eccelmo Sig. Gio. Ant. Magini Padovano. La Signora Miriana dà lustro alla cultura italiana coi fatti, non a parole.

[8] Crisippo: filosofo stoico, nato intorno al 281 aC a Soli, o a Tarso, ambedue in Cilicia, nell’attuale Turchia. Fu discepolo di Arcesilao e venne iniziato allo stoicismo da Cleante. Ad Atene guidò la scuola stoica; all'insegnamento orale e scritto dedicò tutta la vita e fu autore di un sistema di logica che riscosse l'ammirazione degli antichi. Della sua copiosissima produzione, oltre 700 opere, ci rimangono solo frammenti, raccolti da Arnim in Stoicorum veterum fragmenta, pubblicato a Lipsia da Teubner tra il 1903 e il 1905. La maggior parte del materiale riguarda Crisippo, che si spense ad Atene intorno al 208 aC. § Deipnosophistaí VII,23: Χρύσιππος δ’ ὁ φιλόσοφος ἐν τῷ περὶ τῶν δι’ αὑτὰ αἱρετῶν 'τὴν ἀφύην, φησὶ, [τὴν] ἐν Ἀθήναις μὲν διὰ τὴν δαψίλειαν ὑπερορῶσι καὶ πτωχικὸν εἶναί φασιν ὄψον, ἐν ἑτέραις δὲ πόλεσιν ὑπερθαυμάζουσι πολὺ χείρω γινομένην. εἶθ' οἱ μέν, φησίν, ἐνταῦθα τοὺς Ἀδριατικοὺς ὄρνιθας τρέφειν σπεύδουσιν ἀχρειοτέρους ὄντας, ὅτι τῶν παρ’ ἡμῖν πολὺ ἐλάττους εἰσίν· ἐκεῖνοι δὲ τἀναντία μεταπέμπονται τοὺς ἐνθάδε.' - Il filosofo Crisippo, nel trattato relativo alle cose che si debbono preferire di per sé, dice: "L'acciuga ad Atene la disprezzano a causa dell'abbondanza e dicono essere un cibo destinato ai poveri, mentre in altre città l'apprezzano molto, pur essendo di qualità molto scadente. Del resto, dice, qui ci sono coloro che bramano allevare i polli del mare Adriatico che sono alquanto inutili, dal momento che sono molto più piccoli di quelli che abbiamo noi; al contrario, quelli – che abitano lungo l'Adriatico - importano quelli che abbiamo qui. (frammento 2, svF III pag. 195, presso Ateneo VII 285d – traduzione di Elio Corti con la collaborazione di Roberto Ricciardi)

[9] Il Professor Capponi mi fa giustamente notare che Lind potrebbe aver letto simul invece di semel. Infatti, simul significa insieme. Ma l’originale latino riporta semel.

[10] Chi possiede galline che depongono uova con doppio tuorlo sa per esperienza quanto siano grandi queste uova. Anche se Aldrovandi non esprime alcun giudizio per correttezza scientifica, io voglio fare il diavoletto, e sfido chiunque a trovare una gallina che sia in grado di coprire correttamente e far schiudere diciotto delle sue uova con doppio tuorlo! Ciò non sarebbe impossibile se le uova fossero di una nana e venissero affidate a una chioccia di razza gigante. Excluserit è terza persona singolare, per cui le uova le aveva covate proprio la gallina macedone. Pierius Valerianus: nome umanistico del letterato italiano Giovan Pietro Bolzani (Belluno 1477 - Padova 1560). Protetto dai Medici, fu in relazione con i maggiori umanisti del suo tempo. La citazione è tratta dall’opera del Bolzani Hieroglyphica, sive de sacris Aegyptiorum literis commentarii edita a Basilea per la prima volta nel 1556. Che si trattasse di una gallina della Macedonia è una pura illazione di Pierius Valerianus. La notizia della gallina macedone infatti è tratta dalla Historia animalium di Aristotele, che, vedi caso, era proprio macedone, essendo nato nel 384 aC a Stagira, in Macedonia, sulla costa orientale della Penisola Calcidica. Nella Historia animalium - che risale al periodo 347-343 aC - lo Stagirita non dichiara affatto dove cotesta gallina avesse partorito e covato. Vediamo il relativo passo del libro VI, 562a-562b: “Le uova gemelle presentano due tuorli; in certi casi vi è un sottile diaframma di bianco per evitare che i gialli si saldino fra loro, mentre in altri questo diaframma manca e i gialli sono in contatto. Vi sono certe galline che fanno solo uova gemelle, ed è nel loro caso che sono state condotte le osservazioni su ciò che accade nel tuorlo. Una di esse depose diciotto uova e ne fece nascere dei gemelli, tranne che da quelle che risultarono sterili; le altre comunque erano feconde, a parte il fatto che uno dei gemelli [562b] era più grande e l’altro più piccolo, mentre l’ultimo uovo conteneva un mostro.” [Cioè un pulcino con quattro zampe e quattro ali, perché i tuorli non erano divisi. Nota e traduzione di Mario Vegetti]

[11] Il numero delle uova prescritte da Columella a seconda delle stagioni potrebbe sembrare una pignoleria, ma così non è. Credo che Columella, o colui che gli è servito da fonte d’informazione, abbia fatto una deduzione semplice, ma che richiede osservazione e ragionamento. Ogni allevatore vorrebbe sfruttare al massimo una gallina che s’è decisa a covare e quindi deve calcolare il numero di uova da affidarle in base alla taglia. È ovvio che quando fa caldo non accade nulla di grave se le uova periferiche non sono completamente coperte dal piumaggio, visto che oltretutto la gallina se le rigira di quando in quando. Lo stesso non vale per i mesi freddi, durante i quali le uova periferiche riceverebbero pericolosi insulti termici.

[12] Aldrovandi aggiunge un particolare che manca in Plinio, pur traendo ambedue la notizia da Aristotele: il beone aveva posto le uova in terra ricoprendole con una stuoia. Ecco il passo di Aldrovandi: “...quod, ut Aristoteles pariter testis est, quidam potator Syracusis, ovis sub storea in terra positis, tamdiu potaret, donec qua fœtum ederent.” A dire il vero, un conto è coprire delle uova con terra, un’altra cosa è ricoprirle con una stuoia e continuare a bere rimanendo disteso sulla stuoia in attesa di un pio-pio. Infatti Loyl Stromberg in Poultry Oddities cita il metodo d’incubazione adottato nelle Filippine ancora nel 1854, basato su un letto a listelli ricoperto da una stuoia sotto la quale le uova erano allineate, covate da uomini a turno. Da ciò risulta palese che Plinio non elabora le notizie, adottando un pressapochismo tanto inviso ad Aldrovandi.

[13] Nelle grandi famiglie della Roma imperiale esisteva uno schiavo col compito di tagliare e disporre convenientemente polli ed uccelli.

[14] L’ignoranza può essere trasmessa di generazione in generazione, in quanto nessuno si prende la briga di tradurre in termini scientifici quei vocaboli tramandati da millenni ma che non dicono nulla di preciso a noi del XX secolo. Pipita deriva dal latino pituita che significa muco, catarro, raffreddore, lacrimazione, pus, ascesso, gomma delle piante, pipita dei polli; nel parlare popolare la pipita è anche la pellicola cutanea che si solleva ai lati delle unghie. Nessuna delle fonti più autorevoli a mia disposizione ha il coraggio di dire che nel caso del pollo si tratta della forma difterica del difterovaiolo aviare. Le altre due forme cliniche sono la vaiolosa e quella infiammatoria catarrale, simile quest’ultima alla corizza infettiva. Il difterovaiolo è causato da un virus appartenente al gruppo dei pox virus. Che le fonti siano carenti d’informazione lo dimostra il fatto che un giorno dovetti fornire l’equivalente scientifico della parola dialettale valenzana puija all’amico Alberto Lenti, che stava ultimando un articolo di arte culinaria relativa al pollo. Nel dialetto di Valenza la puija è la pipita.