Lessico


Pie pellicane Jesu Domine

Gesù Signore pellicano amoroso
di San Tommaso d'Aquino

Tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo di Valenza (AL)
databile non prima del XVII secolo

Testo di Elio Corti
Revisione di Fernando Civardi

Revisione delle traduzioni di Roberto Ricciardi

Consulenza ornitologica di Giovanni Boano


Riassunto

Possiamo presumere con quasi assoluta certezza che San Tommaso d'Aquino, o colui che in sua vece scrisse l'Adoro te devote, non ebbe la possibilità di far riferimento al pellicano e nemmeno all'avvoltoio femmina (d'ora in poi avvoltoia) così come sono presentati nei Geroglifici di Orapollo (il pellicano è un mentecatto, l'avvoltoia è la misericordia materna), in quanto quest'opera grazie a Cristoforo Buondelmonti giunse in Europa, e precisamente a Firenze, solo nel 1422, quindi dopo circa 158÷98 anni da quando l'inno eucaristico era stato composto. Lo rimarchiamo: per Orapollo il pellicano simboleggiava un mentecatto, o scemo di cervello, mentre simbolo di misericordia materna era l'avvoltoia.

Ai tempi di San Tommaso erano invece disponibili numerosi bestiari oltre al Fisiologo, un'opera fondamentale la cui datazione oscilla fra il II e il III secolo dC in cui, come nel commento redatto da Sant'Epifanio nel IV secolo dC, si parla del pellicano come di un uccello assai affettuoso verso i propri pargoli, tanto che la madre, a forza di baciarli, li fa morire ferendoli col becco. Dopo tre giorni, tanto come quelli intercorsi fra la morte e la resurrezione di Cristo, giunge il pellicano padre che percuotendosi il fianco ne fa scaturire sangue che, istillato sulle ferite dei pulcini defunti, li fa rivivere. Fu facile per i Padri della Chiesa tracciare un'analogia tra il sangue vivificante fluente dal fianco del pellicano e ciò che accadde grazie alla ferita inferta da una lancia al fianco di Gesù ormai morto sulla croce: subito ne uscì sangue e acqua (Giovanni XIX,33), facendo così risorgere il genere umano dalle tenebre del peccato che sono la morte dell'anima.

Già nel XII secolo – quindi almeno cent'anni prima dell'Adoro te devote – gli iconografisti raffiguravano il pellicano con le fattezze di un avvoltoio, e precisamente del capovaccaio, oppure del gipeto, anticamente considerato a ragion veduta un'aquila, ambedue col collo impiumato. Solo il gipeto possiede una barbetta che, forse perché piccola, viene omessa nell'iconografia medievale. Tuttavia in queste raffigurazioni è assente un'altra caratteristica morfologica più saliente in grado di farci escludere che possa trattarsi di uno degli altri due avvoltoi, il grifone e l'avvoltoio monaco, in quanto hanno il collo nudo e dotato di un'evidente anello di piume alla sua base.

È ovvio che questi iconografisti non erano tenuti ad avere una preparazione ornitologica accurata quanto quella dei naturalisti, e non solo riguardo a una barbetta come quella del gipeto, se ancora nel 1555, col supporto di fondati motivi, in ornitologia si identificava il nostro pellicano col nome di onocrotalo e l'attuale spatola con quello di pellicano. Solo agli inizi del 1600 si cominciò a omologare onocrotalo e pellicano, finché Linneo battezzò il pellicano bianco Pelecanus onocrotalus.

Come sopra è stato accennato, i Geroglifici di Orapollo giunsero in Europa nel 1422. In quest'opera si afferma che l'avvoltoio indica la misericordia materna: "Imperoche in tutti li giorni cento, i quali spende solamente per nudrire i suoi figliuoli, non vola quasi mai: e se per sorte gli mancasse il cibo per allevarli, accioche non periscano di fame, impiagatosi la propria cossa gli dà a succhiare il sangue." Ma possiamo escludere con quasi assoluta certezza che l'avvoltoia di Orapollo – che esprime appieno quanto è visibile sulla porta del tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo di Valenza – sia servita da spunto per le raffigurazioni sacre. Infatti pellicani vestiti da avvoltoio sono già rintracciabili nell'iconografia del XII secolo quando il testo dei Geroglifici era ancora ignoto.

Il motivo per cui il pellicano già nel XII secolo veniva rappresentato come avvoltoio potrebbe essere duplice. In primo luogo, nel commento al Fisiologo di Sant'Epifanio il capitolo dell'avvoltoio (che semplicemente digiuna per 40 giorni, pari alla Quaresima, per poi rimpinzarsi) precede quello del pellicano, rispettivamente capitolo VII e VIII, per cui gli iconografisti hanno fatto di ogni erba un fascio e per non scervellarsi più di tanto hanno omologato i due uccelli.

Secondo motivo – e qui potrebbe risiedere il vero – gli iconografisti dovevano essere a conoscenza di quanto affermato per esempio da San Basilio (Homiliae in Hexaemeron VIII De volatilibus et aquaticis Περὶ πτηνῶν καὶ ἐνύδρων) e da Sant'Ambrogio (Hexaemeron libri sex V,20 Vultures), che cioè la Vergine Maria era paragonabile a un'avvoltoia in quanto, come questo volatile, concepì senza copula alcuna, affidandosi unicamente al Vento, allo Spirito Santo, così come il vento rendeva gravide le avvoltoie, che oltretutto partorivano solo femmine. Un'avvoltoia non può generare un pellicano, altrimenti Maria, l'avvoltoia per antonomasia, se avesse partorito un pellicano anziché un avvoltoio, stavolta maschio, avrebbe fatto crollare miseramente la sua sudditanza a Dio, avendo preferito un pellicano a Lui.

Rimane il fatto che non sappiamo se San Tommaso, o chi per esso, si sia riferito al falso pellicano dell'iconografia del XII secolo oppure al vero pellicano, o magari alla spatola. È assai verosimile la prima ipotesi, visto che l'iconografia fasulla mirò a estinguersi verso la fine del XVII secolo. Ecco allora che il falso pellicano del tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo di Valenza, databile non prima del XVII secolo, così come quello di moltissimi altri tabernacoli, trovano la loro piena giustificazione: una licenza iconografica dovuta verosimilmente a pressanti imposizioni religiose connesse alla prole dell'avvoltoia per antonomasia, la Madonna.

Primum movens

Strano a dirsi, ma l'incipit per questa ricerca è una sigaretta che il mio vicino Attila - alias Massimo Lenti - è venuto a fumare in mia compagnia prima di salire sul mio trattore per rasare a zero l'erba non solo della sua proprietà: emulo e invidioso del re degli Unni, doveva rasare a zero anche quella della mia tenuta. Una parola tira l'altra e così mi dice che due giorni prima, domenica 22 giugno 2008, mentre stava godendosi la doccia dopo un'ennesima incursione alla Attila sul tappeto verde, finalmente riusciva ad appurare chi lo stava disturbando facendo ripetutamente squillare il suo campanello: erano i testimoni di Geova, che scacciava in malo modo.

Al che mi sovviene che anch'io scacciai in malo modo due giovani ragazze infatuate di Geova. Si era intorno al 1970 e una sera trovo nella sala d'attesa del mio ambulatorio due ragazze che chiedono di entrare, non per farsi visitare, ma per parlarmi. Si presentano, espongono il motivo, io accetto di disquisire sulle trasfusioni di sangue da loro tanto aborrite, altrettanto aborrite da noi medici quando ci troviamo nell'urgente necessità di salvare la vita a un Geoviano e costui, o il suo clan di parenti e conoscenti, si oppone, scatenando tutte le implicazioni medico legali che ne derivano, specie nel caso di morte del paziente.

A un certo punto mi si affaccia alla memoria che in natura c'è chi usa il sangue per nutrire i suoi piccoli (stranamente scotomizzo le sanguisughe, che col sangue nutrono se stesse) e così invito le due interlocutrici a recarsi all'altar maggiore del Duomo di Valenza e a osservare a cosa ci si appiglia per aprire il tabernacolo: al collo di un pellicano. Sì, perché Gesù fu paragonato a un pellicano amoroso – Pie pellicane Jesu Domine – che col suo sangue ci purifica da ogni peccato, così come quell'uccello grazie al suo sangue riporta in vita i suoi pargoli. Al che la due baldanzose divennero ancor più baldanzose snobbando in malo modo questa trovata ornitologica: paragonare Cristo a un pellicano! Roba da matti! Soprattutto un Cristo che si becca il petto fino a farlo sanguinare per salvare noi poveri peccatori che non meritiamo neanche una trasfusione di sangue.

Se il mio tono era stato sempre conciliante, a questo punto si ruppe l'incantesimo e scacciai in malo modo le interlocutrici, così come aveva fatto Attila, che però non era caduto nel tranello di una conversazione. Che fessacchiotte, pensai. Se solo avessero avuto propensione al colloquio, da lì a poco avrebbero scoperto che il pellicano non si becca il petto fino a farlo sanguinare, pare invece che la sua pappagorgia diventi iperemica nel periodo degli amori o della riproduzione, per cui, vedendolo da lontano, gli antichi pensavano che stesse sanguinando mentre se ne stava nel nido coi pulcini.

Ciò però non è assolutamente vero, come non è assolutamente vero che fosse il pellicano a ferirsi per resuscitare i piccoli. Sembra che fosse l'avvoltoio, ovviamente l'avvoltoia, che inoltre generava per partenogenesi. Solo oggi – 5 luglio 2008 – grazie a Elisa, figlia di Attila, ho potuto appurare che la porta del tabernacolo del Duomo non mostra un pellicano, bensì un'avvoltoia o chi per essa, e che questa falsa iconografia si è tramandata nei secoli.

Quand'ero bambino avevo acquisito - non ricordo da chi - la leggenda del pellicano autolesionista correlata al Pie pellicane Jesu Domine, ma non mi ero mai peritato di verificare chi fosse effettivamente l'uccello del tabernacolo. Per me era un pellicano, come quello contenuto nelle ostie salvaguardate dalla porticina del tabernacolo. Né mi ero mai chiesto se San Tommaso d'Aquino, o chi per esso, nel comporre l'Adoro te devote, avesse fatto riferimento a un pellicano oppure a un avvoltoio.

Oggi, dopo l'analisi del tranello che l'avvoltoia rappresenta per il dogma dell'Immacolata Concezione, oltre che per intricati motivi linguistici, mi vien da pensare che siccome alcuni Padri della Chiesa paragonavano la maternità di Maria a quella dell'avvoltoia, che secondo la tradizione era partenogenetica, fosse d'obbligo raffigurare il pio pellicano come un avvoltoio. Altrimenti Maria si era fatta ingravidare da un Pelecanus onocrotalus se poi Cristo avesse assunto le sembianze del nostro pellicano. E c'è di più: come ho scritto disquisendo sul vero sesso posseduto da Cristo, Maria generò non un avvoltoio, bensì un'avvoltoia, che si becca il petto per nutrire  o per salvare i suoi piccoli.

Fortunatamente le due Geoviane non possono leggere queste affermazioni. Assolderebbero un killer pur di farmi tacere. Che sciocche! E cosa pensano di Dio che ha inventato le sanguisughe, Hirudo medicinalis, grazie alle quali ho salvato parecchi pazienti? E che dire di altre due sue invenzioni ematofaghe, il vampiro comune (Desmodus rotundus Geoffroy, 1810) e il vampiro dell'Amazzonia (Diaemus youngi Jentink, 1893)? E che dire delle femmine del pappataci (Phlebotomus papatasii) e della zanzara (Culex pipiens)? Sono delle ottime mamme create da Dio: garantiscono la vita alla futura prole mettendo a rischio la propria quando succhiano il sangue di vertebrati o di invertebrati col solo scopo di deporre uova come Dio comanda! È semplicemente una grande bagarre. Basta impuntarsi e ciò che è naturale e liscio diventa innaturale e abrasivo più della carta vetrata.

Grazie a Louis Bréchemin (nato nel 1860), tramite il suo trattato POULES ET POULAILLERS Monographie de toutes les races (1894), nel capitolo dedicato alle malattie del pollame, a pagina 328, giovedì 4 agosto 2016 è apparso ai nostri occhi un altro succhiasangue o ematofago, il Syngamus trachea / Syngamus trachealis, il verme biforcuto, come lo soprannominano gli allevatori di fagiani. L’aggettivo trachealis indica bene l’abitudine che ha questo verme di attaccarsi alla trachea degli uccelli, e il nome syngamus deriva da due termini greci, che con la loro unione significano uniti insieme (sýggamos = sýn+gámos = unito in matrimonio, sposato). Il maschio e la femmina di questo verme nematode (= simile a un filo) sono in effetti uniti insieme dai loro organi genitali, il che conferisce pienamente l’aspetto di un verme che termina con due braccia di lunghezza disuguale. Ecco il testo originale tradotto da Fernando Civardi:

Ce syngame ressemble assez au ver de vase dont se servent les pêcheurs. Il pratique sur sa victime de la même façon que les sangsues, suçant le sang après avoir incisé la peau; c'est la femelle qui en absorbe le plus, triplant et quadruplant même de grosseur au bout de quelques semaines. Le sang est indispensable à la formation des milliers d'œufs qui se développent dans son corps. On conçoit aisément que, lorsqu'un jeune oiseau est affecté d'un certain nombre de syngames, arrivés à leur complet développement, il puisse difficilement ne pas mourir étouffé.

Questo singamo assomiglia abbastanza al verme del fango del quale si servono i pescatori. Agisce sulla sua vittima nello stesso modo delle sanguisughe, succhiando il sangue dopo aver inciso la pelle; è la femmina che ne succhia di più, triplicando e anche quadruplicando di grossezza nel giro di alcune settimane. Il sangue è indispensabile alla formazione delle migliaia di uova che si sviluppano nel suo corpo. Si capisce facilmente che, quando un giovane uccello è colpito da un certo numero di singami, giunti al loro completo sviluppo, egli possa difficilmente non morire soffocato.

Primissimum movens

Il vero primum movens non è stata una sigaretta fumata con Attila, bensì il pollo. Strano a dirsi, ma le cose stanno proprio così. Avevo soprasseduto per anni a un errore di D’Arcy Wentworth Thompson (A Glossary of Greek Birds 1895), scozzese protestante, ripreso da Filippo Capponi (Ornithologia Latina 1979), ex seminarista, secondo i quali l'avvoltoia era assurta a simbolo dell'Immacolata Concezione di Maria. Non volevo addentrarmi in questo terreno minato, anche se l'errore dei due studiosi è lapalissiano: l'avvoltoia è l'equivalente della partenogenesi di Maria, in quanto il dogma dell'Immacolata Concezione sancisce tutt'altra cosa, e precisamente che Maria fu concepita da Sant'Anna e da San Gioacchino senza ereditare da Adamo ed Eva il peccato originale, quello che a noi cattolici viene cancellato dal battesimo.

Ma, traducendo il pollo di Conrad Gessner, ecco che a pagina 422 di Historia animalium III (1555) egli cita San Basilio il Grande a proposito delle uova ventose o sterili. Infatti Basilio afferma che gli avvoltoi, a differenza di altri uccelli, depongono uova ventose estremamente fertili senza dover ricorrere assolutamente al coito: "Auctor est in Hexaemero Magnus Basilius, subventanea ova in caeteris irrita esse ac nova, (vana,) nec illis fovendo quicquam excuti: at vultures subventanea fere citra coitum progignere fertilitate insignia - San Basilio il Grande scrive nelle sue Omelie sui sei giorni della creazione che negli altri uccelli le uova ventose sono sterili e insolite (vuote), e che scaldandole non ne può scaturire alcunché: ma che invece gli avvoltoi depongono delle uova ventose estremamente fertili assolutamente senza il coito."

Oggi San Basilio inorridirebbe al sapere che la partenogenesi è stata documentata sia per le uova di gallina che di tacchina, ma non ancora per quelle di avvoltoia. A differenza di quanto accadde per Maria, abitualmente per l'avvoltoia ci vuole l'intervento di un maschio, e così dicasi per la tacchina e la gallina. Nella tacchina e nella gallina è tuttavia ammessa la partenogenesi dovuta a poxvirus o ad altri virus. Qualcuno si chiederà se per partenogenesi nascono solo galletti e tacchinotti oppure galline e tacchinelle. Nascono solo dei maschi, ma non per intervento divino come nel caso di Cristo. Negli uccelli i maschi sono omozigoti per il cromosoma sessuale Z - corredo ZZ - mentre le femmine hanno un corredo ZW, quindi l'opposto di quanto è documentabile nell'essere umano, dove le femmine sono XX e i maschi XY. E gli embrioni partenogenetici ZZ sono vitali, mentre gli embrioni WW - anch'essi partenogenetici - non sono vitali, nonostante possano quasi essere etichettati come superfemmine.

Ecco dunque da dove aveva preso il via la bagarre che affronteremo: non da una sigaretta o dal tabernacolo del Duomo di Valenza, bensì dalle uova ventose o sterili delle galline, contrapposte a quelle fertili delle avvoltoie ingravidate dal vento, tanto come accadde non per l'Immacolata Concezione, ma per la partenogenesi di Maria madre di Gesù, nato per opera del Vento Sacro, lo Spirito Santo.

I personaggi che incontreremo

Aquila - L'etimologia di aquila è assai aleatoria. Sant'Isidoro di Siviglia, forse ispirato da Dio, affermava invece che quest'uccello è stato così chiamato grazie alla sua acutezza visiva: Aquila ab acumine oculorum vocata. (Etymologiae XII) Aquila è la denominazione comune attribuita ad alcuni generi di uccelli dell'ordine dei Falconiformi famiglia Accipitridi. Tra i maggiori rapaci diurni, le aquile hanno un'apertura alare che può superare i due metri e sono munite di un potente becco adunco nonché di robustissimi artigli ricurvi. La loro alimentazione consta di prede vive, pur non mancando, specialmente da parte di talune specie, compresa l'aquila reale (Aquila chrysaëtos), il consumo anche di animali morti, purché recenti, come accade per un altro Accipitride, il falco giocoliere, Terathopius ecaudatus, che se li fa cedere dalle aquile. L'aquila per antonomasia è rappresentata dall'Aquila reale, Aquila chrysaëtos, che vive in gran parte dell'Europa, nel continente asiatico sino all'India e alla Cina, nell'America Settentrionale sino al Messico. Il suo piumaggio, bruno scuro, presenta riflessi dorati in corrispondenza del capo e del collo, da cui deriva chrysaëtos che in greco significa appunto aetós = aquila e chrysós = oro. Quando grazie alla vista acutissima la preda viene individuata, l'aquila in volo si abbassa fulmineamente e la insegue a breve distanza dal suolo, con una rapidità che contrasta singolarmente con la precedente lentezza del volo, e la uccide solitamente per mezzo dell'artiglio robustissimo con cui termina il dito posteriore. Nella tradizione cristiana l'aquila è simbolo dell'evangelista Giovanni e il simbolismo è fondato sul capitolo I di Ezechiele e sul IV dell'Apocalisse.

Avvoltoio – Per motivi storici accenniamo solo agli avvoltoi del Vecchio Mondo e in particolare a quelli che gravitano intorno al bacino del Mediterraneo. Come le aquile, appartengono all'ordine Falconiformi famiglia Accipitridi. Essi si nutrono di carogne. I vari avvoltoi del Vecchio Mondo si sono specializzati nell’alimentazione. Se consideriamo una carcassa intatta, le parti più piccole, i frammenti di carne, ossa e tessuti, necessitano di un becco lungo, sottile e scarsamente uncinato (il capovaccaio); le parti più tenere, le interiora e la carne in putrefazione necessitano di un becco mediamente robusto e uncinato, con la testa e il collo glabri, così da assicurare una buona igiene dopo i pasti (il grifone); le parti più dure richiedono un becco molto robusto e molto uncinato (l’avvoltoio monaco); gli ultimi resti, come le ossa vecchie di mesi, sono consumate esclusivamente dai gipeti. I mammiferi carnivori sono spesso ottimi alleati degli avvoltoi in quanto lasciano molti resti del proprio pasto a disposizione degli spazzini del cielo.

Il capovaccaio (Neophron percnopterus) è un piccolo avvoltoio che si nutre, oltre che di carcasse di animali più o meno grandi, anche di insetti, di chiocciole, talvolta di spazzatura e persino di feci umane in prossimità di alcuni villaggi africani e asiatici, svolgendo il ruolo di spazzino tuttofare. In passato era detto gallina del Faraone (infatti galli e galline mangiano sia residui alimentari che feci umane), ed era sacro a Iside, dea della fertilità e della maternità. Nell’alfabeto geroglifico equivaleva alla lettera A. Il piumaggio adulto è bianco e diventa tale a 6 anni d'età, con remiganti nere (anche se superiormente il vessillo interno è parzialmente biancastro), cosa che si nota in modo particolare durante il volo. La gola e l'area anteriore del collo presentano penne giallastre. Il capo non è calvo, tantomeno il collo: potremmo dire che  il capovaccaio è dotato di una fronte ampia.
Il grifone (Gyps fulvus) sarebbe, per così dire, l'avvoltoio per eccellenza, in quanto in greco l'avvoltoio per lo più era detto gýps. Come tutti gli avvoltoi, il grifone si nutre di resti di animali morti. Adattato a diversi tipi di ambienti, è tuttavia legato alla presenza di pareti rocciose scoscese, dove ama nidificare. È un grande uccello fulvo  o color sabbia. Le penne delle ali e della coda sono nere, il dorso e il ventre marrone chiaro, mentre il collo e la testa sono rivestiti da uno scarso piumino bianco con una corona giugulare biancastra.

L’avvoltoio monaco (Aegypius monachus) generalmente frequenta montagne e pianure desolate ed è assai resistente al freddo. Sebbene si sia perfettamente adattato a vivere in ambienti semidesertici, preferisce costruire il nido sugli alberi. Solitamente conduce vita solitaria, al massimo in coppia o con pochi individui. Quando si trova in prossimità della carcassa si fa spazio gonfiando e scostando le ali, abbassando il capo e saltellando pronto a sferrare rischiosi colpi di becco ai competitori. Il capo è nudo, come pure il collo che presenta alla sua base un collaretto di piume. Il piumaggio è bruno lucente.

Il gipeto (Gypaëtus barbatus) è l'avvoltoio aquila (gýps+aetós in greco), detto anche avvoltoio degli agnelli, Lämmergeier in tedesco. Unico rappresentante del genere Gypaëtus è, tra gli avvoltoi del Vecchio Mondo nidificanti in Europa, quello di maggiori dimensioni. Tipicamente stanziale, nidifica sui dirupi in alta montagna. Come altri avvoltoi è un saprofago e si nutre principalmente di carcasse di animali morti. Un suo comportamento tipico è quello di lasciar cadere le ossa di animali da grandi altezze per romperle e mangiarne il midollo. Come il nome stesso suggerisce (dal greco gyps = avvoltoio e aetós = aquila), da un punto di vista morfologico è collocabile in una posizione intermedia fra l'aquila e l'avvoltoio. La specie ha infatti il corpo più snello e le ali più strette rispetto agli avvoltoi, con penne timoniere e remiganti più lunghe. Sul capo, costantemente bianco, spiccano i ciuffi di vibrisse nere che circondano l'occhio e scendono fin sotto il becco a formare una specie di barba, da cui deriva il nome barbatus della specie. Anticamente il gipeto era considerato un'aquila, anche se in greco esisteva un nome che lo identificava e che è ben diverso da aetós, cioè φήνη phënë, traducibile anche con ossifraga, e Plinio (NH X,11) chiama il gipeto aquila barbata, specificando che dai Tusci, gli abitanti dell'Etruria, era detto ossifraga.

Pellicano – Il pellicano appartiene all'ordine Pellicaniformi famiglia Pellicanidi che annovera i Pellicaniformi più grandi: lunghezza totale 170-180 cm, apertura alare fino a circa 300 cm (pellicano crespo), peso 7-14 kg. Il corpo è massiccio, il collo è piuttosto lungo e il becco grandissimo. Tra i due rami della mandibola e la parte anteriore del collo vi è un sacco, fortemente dilatabile allorché il becco viene spalancato; la lingua è invece molto piccola. Le zampe sono corte, i piedi grandi, provvisti di quattro dita tutte quante unite da una membrana. Il nido è un semplice cumulo di canne o di sterpi, talvolta anche di penne, sul quale vengono deposte le uova (2 o 3 per covata). L’incubazione si protrae per 30-42 giorni; i piccoli sono nudi durante la fase iniziale dello sviluppo e si rivestono di un piumino all’età di 8-14 giorni. Il periodo che essi trascorrono nel nido è piuttosto lungo (12 o 15 settimane), mentre la maturità sessuale viene raggiunta al terzo o quarto anno di vita. Le femmine si differenziano dai maschi per la minore lunghezza del becco e le dimensioni più ridotte del corpo. Le due specie eurasiatiche, il pellicano comune (Pelecanus onocrotalus) e il pellicano crespo o pellicano riccio (Pelecanus crispus), pur avendo dimensioni pressapoco uguali, si distinguono per talune caratteristiche del piumaggio e del comportamento. Il pellicano comune ha infatti una livrea bianca, sfumata di rosa subito dopo la muta, e presenta durante il periodo degli amori una protuberanza aranciata sulla fronte; il pellicano crespo ha invece un piumaggio di colore grigio argenteo. Entrambi hanno sul capo un ciuffo di penne: nel pellicano crespo queste sono però più lunghe, e pure lunghe, morbide e arricciate sono le penne che ne coprono il collo. Osservando infine i due uccelli durante il volo, è facile rilevare che nel pellicano comune le remiganti primarie sono nere e le secondarie grigio-scure, mentre nel pellicano crespo le ali sono quasi completamente bianche, con sfumature grigie alla sola estremità delle remiganti primarie. Gli adulti fanno udire di rado la propria voce, lanciando suoni simili a sibili, sbuffi, gemiti o grugniti; di quando in quando battono l’uno contro l’altro i rami del becco, producendo un rumore notevole, che forse può richiamare quello di un sonaglio dell'asino. I piccoli delle colonie, per contro, emettono continuamente cupi suoni lamentosi, simili al belato delle pecore, a muggiti o squittii e grugniti; questi suoni sono però percepibili soltanto se ci si avvicina di nascosto alle colonie: in caso contrario, anche i piccoli rimangono silenziosi al pari degli adulti. L’origine della leggenda secondo cui il pellicano nutrirebbe oppure resusciterebbe i suoi piccoli col proprio sangue è probabilmente da ricondursi al fatto che le macchie rossicce del gozzo e della sacca, particolarmente evidenti all’epoca della riproduzione, hanno l’aspetto di ferite. Inoltre il fatto che i pellicani adulti curvano il becco verso il petto per dare da mangiare ai loro piccoli i pesci che trasportano nella sacca, può aver indotto all’errata credenza che i genitori si lacerino il torace per nutrire i pulcini col proprio sangue. In Europa, entrambe le specie sono oggi diffuse soltanto nella zona del corso inferiore del Danubio. Più precisamente, i pellicani comuni vivono nel delta del Danubio, mentre i pellicani crespi vivono sia nel delta sia nella riserva di Srebarna, nei pressi di Silistra (Bulgaria nord-orientale sulla destra del Danubio). Nel corso delle loro migrazioni, taluni esemplari vengono sospinti in regioni ove la loro presenza è del tutto insolita. Simili episodi furono particolarmente frequenti nel XVIII e nel XIX secolo, quando alcuni pellicani si spinsero verso nord fino alla Germania settentrionale e alla Finlandia, e a occidente fino alla Francia e alla Spagna. Se crediamo a Plinio, egli afferma che il pellicano era stanziale nel nord della Gallia in vicinanza dell'oceano (X,131), ma potrebbe trattarsi di uno dei suoi soliti errori. Fatto sta che il pellicano ai tempi di Plinio (I sec. dC) era presente a Ravenna, come puntualizza Marziale in uno dei suoi epigrammi (XI,21,10). Ai tempi di Conrad Gessner (1555) lo si poteva osservare sul lago di Ginevra e in un laghetto nei pressi di Zurigo. Adesso dobbiamo scendere di latitudine, in quanto Gessner riferisce che lo si trovava a Mantova e sul lago di Garda. Tutta questa filastrocca geografica ha un solo fine: potrebbe suggerirci che gli iconografisti dei bestiari medievali, che a quanto pare erano tendenzialmente nordici anziché mediterranei, forse ignoravano com'era fatto un pellicano.

Spatola – La Spatola bianca - Platalea leucorodia - appartiene all'ordine Ciconiiformi famiglia Treschiornitidi. Ha grandi dimensioni, aspetto simile a quello di un airone e può raggiungere un peso di quasi 2 kg e un'altezza di 85 cm. Tra le sue caratteristiche più evidenti: le lunghe zampe nere e il collo che di solito mantiene piegato a forma di S. Le spatole hanno penne completamente bianche in epoca invernale, mentre in estate e nel piumaggio nuziale presentano una macchia di un delicato colore giallastro alla base del collo e un motivo dello stesso colore nella parte superiore della nuca. Al loro tratto morfologico più caratteristico, il becco, devono il nome: esso è nero, molto lungo rispetto alle dimensioni del corpo e ha, appunto, una singolare forma a spatola. All'estremità del becco è presente una macchia giallastra. I piedi non sono palmati. Si nutre di insetti, crostacei e piccoli pesci che cattura con una tecnica particolare: diversi uccelli si posizionano fianco a fianco nell’acqua bassa e muovendo i becchi all’unisono setacciano il fondo melmoso.

Antico Testamento dei Settanta - Secondo uno scritto pseudoepigrafico giudaico - la Lettera di Aristea - la versione greca dell'Antico Testamento fu redatta da 72 studiosi inviati ad Alessandria dal re dell'Egitto Tolomeo II Filadelfo (308-246 aC) per tradurre in greco il Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Tale versione venne presto ampliata da elementi leggendari: i traduttori avrebbero lavorato indipendentemente, ottenendo però per ispirazione divina un testo unico. Sarebbe dunque nata verso la fine del sec. III aC per quanto riguarda il Pentateuco. Sulla traduzione degli altri libri dell'Antico Testamento non si hanno notizie. La leggenda dei 70 traduttori è in parte vera. Il Pentateuco, infatti, fu probabilmente tradotto in greco nel III secolo aC a uso degli Ebrei di lingua greca abitanti fuori della Palestina non più in grado di leggere le Scritture nell'originale ebraico. La traduzione dei restanti libri dell'Antico Testamento, l'aggiunta a essi di libri e parti di libri (Apocrifi) e la composizione finale dell'Antico Testamento greco come Bibbia della Chiesa cristiana primitiva, hanno una storia molto complessa sulla quale è d'obbligo soprassedere.

Fisiologo  Fisiologo è colui che studia la natura, phýsis in greco. Il Fisiologo, latinizzato in Physiologus, è un testo scritto fra il II e il III secolo dC allo scopo di aiutare i cristiani d’Egitto a interpretare la natura secondo i principi della nuova religione, che andava ormai affermandosi in tutto l’Impero Romano. Fu inizialmente scritto in greco (ma poi tradotto in molte altre lingue, tra cui latino, arabo, siriano ed etiopico) presumibilmente ad Alessandria d’Egitto, cioè in un’area culturale nella quale culti e misteri mediterranei stavano arricchendosi dell’esperienza cristiana. Il Fisiologo era composto da 48 capitoli che presentavano le caratteristiche di vari animali, piante e pietre, soffermandosi maggiormente nel caso degli animali sulle proprietà religiose dedotte dalle loro abitudini. I capitoli delle diverse versioni possono essere di numero molto inferiore, per scomparsa soprattutto di piante e pietre oltre ad alcuni animali. Questo volume enciclopedico venne poi ripreso nell’Alto Medioevo (476-1000) sulla scia della visione fortemente religiosa della vita che si era diffusa in tutta l’Europa centro-meridionale. Non solo durante il Medioevo, ma anche successivamente, il Fisiologo esercitò una grande influenza sul simbolismo dell'arte sacra cristiana, come nel caso del pellicano. Però, oltre che per motivi di partenogenesi delle avvoltoie che potrebbero aver influito sulla falsa iconografia medievale basata sul Fisiologo, più tardi il pellicano continuò a essere ripetutamente ed erroneamente raffigurato come avvoltoio. Assai probabile è qui l'influsso del testo contenuto nei Hieroglyphiká di Orapollo relativo all'avvoltoio, dove l'amore spinge la madre a nutrire i piccoli avvoltoi col proprio sangue (nel Fisiologo ciò accade per il pellicano, mentre l'avvoltoio qui si limita a digiunare controvoglia per 40 giorni). Ispirandosi al Fisiologo vennero scritti molti bestiari, veri e propri manuali che permettevano l’interpretazione di tutti gli elementi naturali che gli uomini credevano essere segni del male o di Dio. Un eminente commentatore del Fisiologo fu Sant'Epifanio (ca. 310-403) vescovo di Costanza, l'antica Salamina di Cipro.

Orapollo Niloo - In greco Ὡραπόλλων. Scrittore egiziano di Nilopoli (a ovest del Nilo, in prossimità del lago Meris, 6 km a sudovest di Menfi che a sua volta è 24 km a sud del Cairo), autore di un’opera in due libri in lingua copta sui geroglifici, non anteriore al IV secolo dC, tradotta in cattivo greco da un certo Filippo. L’opera - Hieroglyphiká - non rivela una vera conoscenza dell’antica scrittura e basa le spiegazioni sulle magie e superstizioni in cui l’antica religione egizia si era mutata. Contiene l'interpretazione dei segni e la spiegazione dei motivi per cui a un certo segno corrisponde una data idea, sulla base di interpretazioni simboliche spesso originali e fantasiose. Il testo, scoperto nel 1419 sull'isola greca di Andros, fu portato a Firenze da Cristoforo Buondelmonti nel 1422 ed esercitò il suo influsso sulla tradizione ermetica e neoplatonica fiorentina, alimentando la credenza in un sapere più antico di quello classico, depositato in un linguaggio misterioso accessibile solo agli iniziati. La prima edizione del trattato è del 1505 (Venezia, Aldo Manuzio), ma nel Cinquecento apparve anche in traduzioni latine  e in lingue moderne: italiano a cura di Pietro Vasolli (Venezia, Gabriele Giolito, 1547) francese e tedesco.

San Tommaso d'Aquino – Filosofo e dottore della Chiesa, nato ad Aquino (Frosinone) nel 1225 e morto a Fossanova (frazione di Priverno, provincia di Latina) nel 1274. Massimo rappresentante della scolastica medievale, discendente dalla famiglia dei conti d'Aquino, compì i suoi studi dapprima a Montecassino, quindi a Napoli, dove Federico II aveva fondato l'Università. All'età di 18 anni entrò nell'ordine domenicano e, dopo un soggiorno nel suo castello di Roccasecca, dove si dedicò allo studio delle Sentenze di Pietro Lombardo e dei testi aristotelici tradotti da Michele Scoto, lasciò l'Italia (1246). Continuò a Colonia gli studi filosofici e teologici e fu discepolo di Sant'Alberto Magno. Nel 1252 giunse a Parigi per iniziare l'insegnamento della teologia e insieme a San Bonaventura fu aggregato come Maestro in quell'Università. L'Adoro te devote -  la cui penultima strofa inizia con Pie pellicane Jesu Domine - è uno dei cinque inni eucaristici che si pensa siano stati scritti da San Tommaso in occasione dell'introduzione della solennità del Corpus Domini nel 1264, su commissione di papa Urbano IV. L'attribuzione non è certa poiché le prime testimonianze di tale paternità letteraria risalgono a non meno di cinquant'anni dalla morte del Santo, il quale potrebbe aver avuto tra le mani il Fisiologo o qualche bestiario, ma è assai verosimile che non ebbe modo di conoscere i Hieroglyphiká di Orapollo, in quanto giunsero in Italia, come già detto, nel 1422.

Sant'Epifanio di Salamina - Padre della Chiesa (Palestina, ca. 310 – 403). Condusse vita monastica in Egitto e nel 367 fu nominato vescovo di Salamina (distrutta da un terremoto e ricostruita da Costanzo II, dal quale prese il nome di Constantia), nella baia di Famagosta a Cipro. Fondò numerosi monasteri ed ebbe parte attiva nelle controversie religiose del tempo. Fu a Roma nel 382. Influenzò fortemente San Girolamo e nel 402 appoggiò il patriarca alessandrino Teofilo contro Giovanni Crisostomo, tenendo sempre un atteggiamento ostile a Origene. La sua festa ricorre il 7 maggio. L'umanista e teologo, segretario di papa Sisto V, Gonzalo Ponce de León (Siviglia 1530-1590) nel 1587 (Zanetti & Ruffinelli, Roma) e nel 1588 (Christophe Plantin, Anversa) pubblicava il commento di Sant'Epifanio al Physiologus (Sancti Patris nostri Epiphanii, Episcopi Constantiae Cypri, ad Physiologum), corredandolo di note esplicative. Proprio in questa edizione, alla voce De Pelecano (Περὶ τῆς Πελεκᾶνος – La Pellicana) troviamo il pellicano maschio che resuscita col suo sangue i pargoli uccisi dai troppi baci della madre, che però è raffigurato come avvoltoio (per l'80% è il capovaccaio, Neophron percnopterus, per il 20% si tratta dell'avvoltoio degli agnelli o gipeto, Gypaëtus barbatus, dal greco gyps = avvoltoio e aetós = aquila, in quanto un occhio inesperto può facilmente scambiarlo per un'aquila, ma che è fornito di una barbetta nera – ambedue hanno il collo impiumato), un'iconografia corrente, ma aspramente criticata dallo stesso Gonzalo. La stessa iconografia del pellicano vestito da capovaccaio o da gipeto è presente anche nell'edizione del 1587.

San Basilio il Grande - Padre e dottore della Chiesa (Cesarea di Cappadocia, odierna  Kayseri in Turchia,  330 ca. - 379), patriarca del monachesimo orientale, santo. Nato da una ricca famiglia, Basilio studiò ad Atene e Costantinopoli, dove conobbe Gregorio Nazianzeno, al quale fu legato da profonda amicizia. Dopo aver visitato celebri eremiti in Egitto e Siria, abbandonò la carriera pubblica e praticò l'eremitaggio in una sua proprietà sul fiume Iris (Neocesarea); qui attese alla composizione di una regola monastica, che in seguito venne adottata dall'ordine monastico (soprannominato dei "monaci basiliani") da lui fondato nel 360 ca. Alla Regola di Basilio, cardine del monachesimo orientale, obbediscono tuttora ordini sia cattolici che ortodossi. Famoso per la sua sapienza e la santità della sua vita, fu convocato dal vescovo di Cesarea, Eusebio, per difendere la dottrina cristiana contro le dottrine eretiche degli ariani. Nel 370 divenne egli stesso vescovo di Cesarea, ufficio che mantenne fino alla morte. Festa il 2 gennaio. Basilio, suo fratello san Gregorio di Nissa e l'amico san Gregorio Nazianzeno sono noti come i "grandi padri cappadoci". L'imponente attività pratica non gli impedì di attendere alla composizione di numerosi scritti. Fra quelli teologici primeggiano, insieme ad alcune lettere, il De Spiritu Sancto, in cui si difende la divinità dello Spirito Santo, assumendo però una posizione conciliativa nella disputa allora divampante sul dogma trinitario: le tre persone sono da lui definite come uguali nell'essenza e distinte nell'esistenza individuale, formulazione entrata definitivamente nel dogma cattolico dell'unica sostanza in tre persone. All'esegesi biblica sono piuttosto dedicate le Omelie, tra cui spiccano le 9 che commentano i sei giorni della creazione o Hexaemeron. Basilio si attiene alla lettera del testo sacro, contro la tendenza assai diffusa della sua interpretazione allegorica. Di grandissimo interesse è l'Epistolario, con 365 lettere, ricco di notizie sulla vita e il pensiero del santo e sulla storia della Chiesa. La sua natura, serena pure nei disagi, vi si rivela schiettamente; un ulteriore saggio del suo equilibrio si ha nel Discorso ai giovani sul modo di trarre profitto dalle opere della letteratura greca, un opuscolo importantissimo per i rapporti tra cristianesimo e cultura classica, che Basilio non disprezza né proibisce, ma raccomanda di utilizzare dove se ne possano trarre insegnamenti morali utili all'educazione. Compose anche una liturgia (nota come "liturgia di san Basilio"), ancora oggi celebrata nel rito bizantino.

Sant'Ambrogio - Vescovo e dottore della Chiesa (Treviri 334 o 339/340 - Milano 397). Nato da nobile famiglia romana a Treviri, dove il padre era prefetto della Gallia, fu educato a Roma ed entrò egli pure nella carriera amministrativa dell'impero, divenendo governatore di Liguria ed Emilia con sede a Milano. Lì, mentre era solo catecumeno, alla morte del vescovo Aussenzio, fu dal popolo proclamato suo successore e in breve tempo battezzato e consacrato (7 dicembre 374). E al 7 dicembre ricorre la sua festa. Rivolse allora alla Chiesa le sue grandi qualità di magistrato. Fu al centro di gravi contese politiche e religiose: lottò vittoriosamente contro gli ariani a Milano e nel Concilio di Aquileia (380); si oppose alla restaurazione di culti pagani a Roma, richiamando l'imperatore Valentiniano II ai suoi doveri di cristiano, umiliò Teodosio il Grande (colpevole di una spietata repressione a Tessalonica), che ne divenne poi ammiratore e amico; soccorse in ogni modo i poveri e gli oppressi. A Milano lo incontrò, nel 386, Sant'Agostino, che ne subì egli pure il potente fascino. Infaticabile e illuminato in queste attività di governo, Ambrogio non lo fu meno nelle vesti di oratore e scrittore, sempre rispondendo alle esigenze pastorali della sua posizione. Nella scienza teologica Ambrogio diede un valido contributo all'affermarsi del dogma trinitario, di recente definizione, con la sua terminologia improntata a grande chiarezza e costanza sulle relazioni tra il Padre e il Figlio e sulla processione dello Spirito Santo, superando di gran lunga tutti gli autori ecclesiastici latini e preparando le formule definitive di Sant'Agostino. Delle sue numerose opere, che testimoniano un'attività infaticabile, citiamo le principali, attenendoci alla divisione tradizionale: Hexaemeron libri sex, De Paradiso, De Abraham libri duo, De Iacob et vita beata libri duo, Enarrationes in XII psalmos davidicos, Expositionis evangelii secundum Lucam libri decem, De officiis ministrorum libri tres, De virginibus, De viduis, De virginitate, De fide ad Gratianum Augustum libri quinque, De Spiritu Sancto, De Incarnationis dominicae sacramento, De paenitentia libri duo, De sacramentis libri sex, Explanatio symboli ad initiandos, Sermo contra Auxentium, De basilicis tradendis, De obitu Theodosii; e vari Inni. Ovunque rifulgono in questi scritti l'equilibrio e il vigore della sua concezione religiosa della vita, in cui quasi si congiungono romanità e cristianesimo.

Conrad Gessner - Medico e naturalista svizzero (Zurigo 1516-1565). Versato in tutte le scienze, dalla filologia alla medicina, fu uomo di grande erudizione. In generale tuttavia si rivolse al mondo naturalistico, compì escursioni di studio sulle Alpi interessandosi della flora e della fauna. Ebbe abbastanza chiaro il concetto di genere nella gerarchia sistematica animale e vegetale. Famosa la sua Historia animalium, opera antologica assai pregevole, se non fondamentale, in 5 volumi, dei quali in questo momento a noi interessa il III, pubblicato nel 1555.

Ulisse Aldrovandi – Filosofo, medico e naturalista (Bologna 1522-1605). Tipico rappresentante del pensiero rinascimentale, ebbe vivo l'amore per i classici, soprattutto per Aristotele e Galeno, e pose l'osservazione e l'esperienza a fondamento della sua ricerca. Fra i suoi scritti scientifici a noi interessa l'Ornithologia in 3 volumi (1599-1600-1603) straripanti di errori - come vedrete da quel poco che ho trascritto - nonché di un greco intraducibile, dei quali volumi a noi interessa specificamente il III. Aldrovandi fu un grande arraffone, specialmente del patrimonio messo a disposizione da Gessner, che a ogni piè sospinto etichetta come l'Ornitologo per antonomasia. Ma Ulisse, come vedremo, ebbe anche qualche idea geniale, come è il caso dell'identificazione del pellicano. La critica è sempre stata troppo benevola nei suoi confronti. Forse l'unico suo grande merito è quello di aver speso denaro a iosa per assoldare acquarellisti e incisori che ci hanno tramandato un'iconografia naturalistica che i fotografi odierni dovrebbero invidiare ed emulare.

L'avvoltoia assurta a emblema
della partenogenesi anemofila di Maria

Due personaggi di spicco, San Basilio (ca. 330-379) e Sant'Ambrogio (ca. 339-397), ambedue Dottori della Chiesa Cattolica, confidando in leggende prive di qualsiasi fondamento naturalistico, fecero sì che l'avvoltoia assurgesse a emblema della partenogenesi anemofila di Maria. Sia Basilio che Ambrogio, senz'altro ispirati da Dio, non certo da Aristotele, credevano in quella che amo definire partenogenesi anemofila delle avvoltoie, una leggenda tramandata nei secoli e che ancora nel III secolo dC Eliano sintetizzò nel modo che tra poco vedremo. È d'uopo una precisazione: per partenogenesi s'intende un modo naturale di riprodursi e consiste nella nascita di un essere da una vergine - parthénos in greco - o da una femmina non più vergine ma senza l'intervento di spermatozoi, come è il caso dei fuchi; anemofila è l'inseminazione che avviene grazie al vento, detto ánemos in greco, cui ricorrono certe piante, per esempio il nocciolo, per essere impollinate. Ecco il testo di Eliano:

"Dicono che non nasce mai un avvoltoio maschio, ma tutte quante femmine; e siccome gli animali lo sanno e temono la mancanza di figli, per avere della progenie fanno quanto segue. Volano con la prua rivolta verso Noto; e se Noto non ci fosse aprono la bocca verso Euro, e il soffio di vento penetrando le feconda, e rimangono gravide per tre anni. E dicono che l'avvoltoio non tesse un nido. [...] Vengo a sapere che gli avvoltoi non depongono uova, ma che partoriscono dei pulcini. E che appena dopo la nascita sono forniti di ali, ho sentito dire anche questo." (Eliano La natura degli animali II,46)

Oggi, resi edotti dagli ornitologi, siamo pronti a inorridire o a sghignazzare di fronte a ciò che riferisce Eliano. Se non vogliamo incorrere in una scomunica, guardiamoci anche solo dal sorridere leggendo le false affermazioni ornitologiche dei due Santi. Se, come essi affermano, abbiamo l'obbligo e il privilegio di credere nella partenogenesi anemofila di Maria avvenuta grazie allo Spirito Santo, diventa automatico dover credere che tutt'oggi le avvoltoie rimangono gravide grazie a Noto oppure a Euro.

San Basilio

Ὁμιλία εἰς τὴν Ἑξαημέρον ηʹ - Περὶ πτηνῶν καὶ ἐνύδρων
www.documentacatholicaomnia.eu

Πολλὰ τῶν ὀρνίθων γένη οὐδὲν πρὸς τὴν κύησιν δεῖται τῆς τῶν ἀρρένων ἐπιπλοκῆς· ἀλλ᾿ ἐν μὲν τοῖς ἄλλοις ἄγονά ἐστι τὰ ὑπηνέμια, τοὺς δὲ γύπας φασὶν ἀσυνδυάστως τίκτειν ὡς τὰ πολλά, καὶ ταῦτα μακροβιωτάτους ὄντας· οἷς γε μέχρις ἑκατὸν ἐτῶν, ὡς τὰ πολλά, παρατείνεται ἡ ζωή. Τοῦτό μοι ἔχε παρασεσημειωμένον ἐκ τῆς περὶ τοὺς ὄρνιθας ἱστορίας, ἵν᾿ ἐπειδάν ποτε ἴδῃς γελῶντάς τινας τὸ μυστήριον ἡμῶν, ὡς ἀδυνάτου ὄντος καὶ ἔξω τῆς φύσεως, παρθένον τεκεῖν, τῆς παρθενίας αὐτῆς φυλαττομένης ἀχράντου, ἐνθυμηθῇς ὅτι ὁ εὐδοκήσας ἐν τῇ μωρίᾳ τοῦ κηρύγματος σῶσαι τοὺς πιστεύοντας, μυρίας ἐκ τῆς φύσεως ἀφορμὰς πρὸς τὴν πίστιν τῶν παραδόξων προλαβὼν κατεβάλετο.

Homilia  in Hexaemeron VIII – De volatilibus et aquaticis
Patrologiae Graecae tomus XVII
 Jacques-Paul Migne – Paris 1857

6 - Multis avium generibus ad conceptum nihil opus est copula marium: sed in aliis generibus edita citra coitum ova, infecunda sunt. Ferunt autem sine coitu ut plurimum parere vultures, licet maxime longaevos: quippe quibus vita ad centum usque annos plerumque protendatur. Id velim notatum et observatum ex alitum historia: ut si quando nonnullos videris mysterium nostrum irridere, quasi fieri nequeat, et quasi sit a natura alienum, ut virgo, virginitate eius intemerata permanente, pepererit, veniat in mentem tibi, Deum, cui per praedicationis  stultitiam credentes salvos facere libuit, innumera incitamenta, ab ipsa natura desumpta, ad fidem rebus stupendis conciliandam in antecessum proposuisse.

6 – Per molte categorie di uccelli non è necessaria la copula dei maschi per concepire: ma in altre categorie - come nel pollo - le uova deposte senza il coito sono infeconde. Riferiscono infatti che senza il coito le avvoltoie partoriscono moltissimo, anche se assai attempate: infatti per lo più la loro vita si prolunga fino a cent'anni. Ecco cosa vorrei che fosse segnalato ed evidenziato basandomi sui resoconti relativi agli uccelli: affinché, se talora ti sembra che qualcuno si faccia beffe del nostro mistero, come se non potesse accadere e sia estraneo alla natura che una vergine abbia partorito continuando a rimanere casta nella sua verginità, ti venga in mente che Dio, al quale piacque, tramite la stupidità della predicazione§, salvare coloro che vi credono, anticipò innumerevoli incitamenti desunti dalla natura stessa al fine di abbinare la fede a cose meravigliose.

§ Corinzi I - I,21 Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.

 

Sant'Ambrogio

Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi
Hexaemeron libri sex
Liber quintus
Jacques-Paul Migne – Patrologia Latina Volumen xiv

De opere quinti diei caput xx - Vultures qui sine maris copula gignere dicuntur, virginei partus possibilitatem astruere.

Capitolo xx relativo al lavoro del quinto giorno della creazione – Le avvoltoie, che si dice partoriscano senza accoppiarsi col maschio e che dimostrano che una vergine può partorire.

Diximus de viduitate avium, eamque ab illis primum exortam esse virtutem: nunc de integritate dicamus, quae in pluribus quidem avibus ita esse asseveratur, ut possit etiam in vulturibus deprehendi. Negantur enim vultures indulgere concubitu et coniugali quodam usu nuptialisque copulae sorte misceri, atque ita sine ullo masculorum concipere semine et sine coniunctione generare, natosque ex his in multam aetatem longaevitate procedere, ut usque ad centum annos vitae eorum series producatur, nec facile eos angusti aevi finis excipiat.

Abbiamo parlato della vedovanza degli uccelli - delle tortore - e abbiamo detto che innanzitutto da essi è nata quella caratteristica positiva: adesso parliamo della castità, che in effetti si afferma con certezza essere tale in parecchi uccelli da poter essere rinvenuta anche nelle avvoltoie. Infatti si afferma che le avvoltoie non si abbandonano all'accoppiamento e che non si uniscono carnalmente per una consuetudine in un certo senso coniugale e per un tipo di vincolo nuziale, e che in questo modo concepiscono senza alcun seme maschile e che generano senza essersi accoppiate, e che i soggetti che ne nascono trascorrono una vita assai longeva, tanto che la loro discendenza va avanti fino a cent'anni di vita, e che difficilmente li coglie una morte in tenera età.

Quid aiunt, qui solent nostra ridere mysteria, cum audiunt quod virgo generavit, et impossibilem innuptae, cuius pudorem nulla viri consuetudo temerasset, existimant partum? Impossibile putatur in Dei Matre quod in vulturibus possibile non negatur? Avis sine masculo parit et nullus refellit: et quia desponsata viro Maria virgo peperit, pudori eius faciunt quaestionem. Nonne advertimus quod Dominus ex ipsa natura plurima exempla ante praemisit, quibus susceptae incarnationis decorem probaret, et astrueret veritatem?

Cosa dicono coloro che sono soliti deridere i nostri misteri quando sentono dire che una vergine partorì, e ritengono impossibile un parto di una vergine il cui pudore non venne profanato da alcuna intimità con un uomo? Viene ritenuto impossibile per la Madre di Dio ciò che non viene affermato come impossibile nelle avvoltoie? Un uccello partorisce senza il maschio e nessuno ha nulla da ribattere: mentre si mettono a discutere sulla Sua castità per il fatto che la vergine Maria partorì mentre era sposa di un uomo. Non ci rendiamo conto che il Signore si è fatto precedere da tantissimi esempi traendoli dalla stessa natura, con cui dimostrare la bellezza dell'essersi incarnato e attestare il vero?

 

In chiusura vale la pena accennare a due leggende importanti, ambedue relative alla partenogenesi anemofila. Dapprima citiamo quella delle cavalle. Infatti la trita e ritrita favola del vento fecondatore non risparmiò neppure le puledre, che si diceva rimanessero gravide grazie a Zefiro, o Favonio. Ciò accadeva sul Monte Tagro nei pressi di Olisipo (Olisippo, Olisippona, Ulisippo), l'odierna Lisbona, o sulle rive del fiume Tago, sempre nei pressi di Lisbona. Questa panzana sulle cavalle non venne tramandata solo da Varrone (che ci credeva fermamente), ma anche da Plinio in Naturalis historia VIII,166: "Risulta che in Lusitania nei pressi della città di Lisbona e del fiume Tago le cavalle, volgendosi verso il Favonio che spira, ricevono un soffio vitale, e che ciò diventa un figlio, e che così viene partorito assai rapidamente, ma non supera i tre anni di vita."  Plinio si limitò a riferire, mentre Varrone in De re rustica II,1 afferma che la cosa è vera: "Per quanto riguarda la riproduzione, in Spagna accade una cosa incredibile, ma è vera, in quanto in Lusitania, che si affaccia sull'oceano, in quella regione in cui si trova la città di Lisbona, sul monte Tagro in un determinato periodo certe cavalle concepiscono per effetto del vento, come qui da noi sono solite fare anche le galline, le cui uova le chiamano piene di vento." Si ponga però attenzione al fatto che le uova ventose delle galline, concepite e deposte per colpa del vento, non generavano pulcini: erano sterili.

E Virgilio, parlando delle cavalle dell'Anatolia, così riferisce: illae | ore omnes versae in Zephyrum stant rupibus altis, | exceptantque levis auras et saepe sine ullis | coniugiis vento gravidae, mirabile dictu, - esse, tutte quante rivolte con la bocca verso Zefiro se ne stanno sulle alte rupi e attirano su di sé le brezze e spesso senza alcun accoppiamento vengono rese gravide dal vento, cosa straordinaria a dirsi. (Georgiche III,272-275) In base al tono di Virgilio la notizia parrebbe autentica.

Così come Plinio, anche Aristotele si limita a riferire senza dare sentore di crederci, ma le cavalle ingravidate dal vento erano quelle di Creta: "Fra le femmine le più propense al coito sono la cavalla, e, in secondo luogo, la vacca. Le cavalle sono comunque folli per il maschio, onde il loro nome — ed è un caso unico fra gli animali — viene riferito per ingiuria alle donne sfrenatamente dedite al piacere. Dicono che in questo periodo esse possano anche venir fecondate dal vento, perciò a Creta non separano gli stalloni dalle femmine. Quando esse si trovano in questo stato, rifuggono dagli altri cavalli (stato che nei maiali è detto «follia del verro»), e non corrono né a levante né a ponente, ma verso settentrione o mezzogiorno. Una volta cadute in tale condizione, non lasciano avvicinarsi nessuno, finché sono sopraffatte dalla fatica o hanno raggiunto il mare. Allora emettono una sostanza, che viene chiamata hippomanës [cavalla pazza] come l’escrescenza presentata dal puledro alla nascita; essa è simile alla kápria della scrofa, ed è ricercatissima dalle donne che preparano le pozioni." (Historia animalium VI,18 572a) Conviene ribadire il concetto che in nessuna delle opere attribuite ad Aristotele è dato di leggere una qualsivoglia partenogenesi anemofila delle avvoltoie.

Ed eccoci al secondo punto: la partenogenesi anemofila delle donne nel Sudest Asiatico. Nessuno dei due autori che citeremo è stato colto dal pensiero che qualcosa di simile, di molto simile se non identico, era già accaduto 1500 anni prima, sempre in Asia, ma in Galilea, e precisamente a Nazareth (ricerca di Andrea Bertolazzi). Per essere pedantemente pignoli, possiamo aggiungere che il fatto avvenne a 500 metri sul livello del mare a una distanza in linea d'aria pari a 27 km dal lago di Tiberiade e a 33 km dal Mediterraneo.

Il portoghese Tomé Pires (1460 - ca. 1524/ca. 1543) si imbarcò nel 1511 alla volta dell'India con l'incarico di compiervi studi sulle piante medicinali locali che avrebbero potuto incentivare i traffici di spezie e di sostanze medicamentose tra Portogallo e Oriente. Pare assodato che la sua Suma Oriental – un resoconto che spazia dal Mar Rosso al Giappone – fu conclusa entro il 1515. La Suma, tradotta in inglese e pubblicata nel 1944 da Armando Cortesão, così riferisce: "Dicono che in faccia a Priaman c'è un'isola dove vi sono solamente donne e che esse non hanno uomini, e che rimangono gravide da altri uomini che vi giungono per commerciare e che subito se ne vanno via di nuovo, e che altre vengono rese gravide dal vento." L'isola cui Pires fa riferimento probabilmente è l'isola di Siberut, una delle più grandi del gruppo delle Mentawai, un arcipelago dell'Oceano Indiano al largo della costa occidentale dell'isola di Sumatra.

Il vicentino Antonio Pigafetta (ca. 1485 - ca. 1534), che aveva accompagnato Ferdinando Magellano nella circumnavigazione del globo dal 1519 al 1522, così scrive nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo iniziata nel 1524 e ultimata nel 1525: "Il nostro piloto più vecchio ne disse come in una isola detta Ocoloro, sotto de Giava Maggiore, in quella trovasi se non femmine: e quelle impregnarse de vento, e poi quando partoriscono, se il parto è maschio, lo ammazzano; se è femmina lo allevano, e se uomini vanno a quella sua isola, loro ammazzarli purchè possano." Solitaria e un po' più a sud delle Mentawai di Pires si trova l'isola di Enggano che dovrebbe corrispondere a Ocoloro di Pigafetta che egli colloca a sud di Giava Maggiore, che a sua volta dovrebbe corrispondere alla nostra Sumatra.

Il pellicano nella classificazione binomia

Per parecchi secoli i naturalisti non furono dell'avviso che onocrotalo equivalesse a pellicano, come dimostra Conrad Gessner in Historia animalium III (1555) a proposito di Onocrotalus e Pelecanus, che sarebbero due uccelli diversi: onocrotalus era il pellicano, mentre pelecanus corrispondeva alla spatola, oggi Platalea leucorodia. Il motivo di queste dissonanze è assai semplice: nel 1555 l'attuale classificazione scientifica non era ancora nata.

Lo svedese Carl von Linné (1707-1778), avvalendosi dei suoi predecessori, tra i quali Gessner, diede vita alla classificazione binomia, ideata nel 1751 e introdotta nel 1753, una classificazione che si fonda su due nomi latini di cui il primo corrisponde al genere e il secondo alla specie cui l'essere vivente appartiene. L'uso del latino è dovuto al fatto che gli studiosi, ancora all'epoca di Linneo, comunicavano in questa lingua, anziché in inglese come oggi accade, assurto così al ruolo di vero esperanto. Quando grazie a Linneo la classificazione binomia riuscì a prendere il sopravvento, al pellicano comune furono appioppati ambedue i vocaboli: Pelecanus onocrotalus, mettendo così a tacere i dissenzienti. E adesso dedichiamoci all'etimologia di onocrotalus e di pelecanus.

Etimologia di pelecanus e onocrotalus

Pellicano

Pellicano deriva dal latino tardo pelecanus / pelicanus / pellicanus, usato dagli scrittori ecclesiastici, risalente al greco πελεκάν pelekán, genitivo πελεκᾶνος pelekânos, a sua volta derivato da πέλεκυς pélekys, ascia, scure, per la forma del becco di quest'uccello che Aristotele in Historia animalium VIII,12 chiamava pelekán e che viene comunemente identificato col Pelecanus onocrotalus o pellicano bianco. Ma Aristotele sempre nello stesso trattato - e precisamente in IX,10 -  usa nuovamente pelekán, che stavolta in base alle abitudini alimentari andrebbe identificato con la spatola, Platalea leucorodia. Ciò darebbe ragione a Gessner che sotto la voce De Pelecano identifica - anche iconograficamente - la spatola e non il pellicano, da lui descritto alla voce De Onocrotalo.

In latino, oltre a pelecanus, troviamo anche pelicanus nonché pellicanus. Pelecanus e pelicanus sono vocaboli assenti in scrittori naturalistici come Plinio, in quanto usati da scrittori ecclesiastici come San Girolamo. Per questi due termini l'etimologia è stata appena illustrata. Assai interessante e fantasmagorica è quella di pellicanus, come puntualizza Gessner a pagina 641 del capitolo De Pelecano: Pellicanus dicitur quasi pellem habens canam, id est plumas albas, (ridicula etymologia, quanquam res vera est). - Viene detto pellicano come se avesse la pelle canuta, cioè le piume bianche (etimologia ridicola, nonostante la cosa sia vera). Gessner non lo specifica, ma questa etimologia è contenuta, per esempio, nel libro XXIII del De animalibus di Alberto Magno, che così esordisce quando parla del pellicano: Pellicanus avis est a pelle cana sic vocatus eo quod canas habeat pennas.

Per finire, dobbiamo puntualizzare che nell'edizione del Fisiologo di Sant'Epifanio, a cura di Gonzalo Ponce de León, per pellicano troviamo πελεκᾶν pelekân con l'accento circonflesso sulla lettera a: ciò dimostra che la linguistica è un campo minato. Infatti verosimilmente si è fatta confusione con πελεκᾶς pelekâs πελεκᾶντος pelekântos, il picchio verde (Picus viridis), la cui etimologia è identica a quella di pelekán, dal momento che con il becco lungo e appuntito va a caccia di insetti perforando il legno degli alberi. In Orapollo per pellicano troviamo il corretto πελεκάν.

Onocrotalo

Onocrotalo è un termine assente negli attuali vocabolari di italiano, ma è ancora presente in quello di Tommaseo & Bellini (1865-1879) che addirittura ne dà l'esatta etimologia: dal greco ὄνος ónos = asino e κρόταλον krótalon = sonaglio, nome da alcuni adoperato per indicare il pellicano comune (Pelecanus onocrotolus). Si tratterebbe quindi di un uccello che produce un rumore paragonabile a quello del sonaglio appeso al collo dell'asino. Possiamo tuttavia puntualizzare che nessun autore che usò il termine greco onokrótalos descrisse le caratteristiche del volatile in modo da potergli dare un'identità. L'identificazione con il pellicano la dobbiamo a Plinio, che usò la forma latinizzata onocrotalus.

Il crotalo – dal greco κρότος krótos = rumore – è  uno strumento idiofono (in grado cioè di produrre il suono grazie alla sola materia di cui è costituito) usato nel mondo antico (Egitto, Grecia e Roma) e formato, analogamente alle castagnette, da due elementi di legno, avorio o altro materiale (di forma e dimensione variabili) che venivano percossi l'uno contro l'altro. Un esempio ci è fornito in zoologia dai serpenti a sonaglio, essendo il sonaglio un organo proprio di molti crotali (genere Crotalus della famiglia Viperidi) costituito da un certo numero di astucci cornei, cavi, articolati fra loro, la cui rapida vibrazione, attuata per allarme o difesa, produce un caratteristico suono crepitante udibile per le specie più grandi anche ad alcune decine di metri di distanza.

Circa la voce emessa dal pellicano, le discussioni spaziano dall'afonia, come afferma D’Arcy Wentworth Thompson (A Glossary of Greek Birds, 1895), al raglio dell'asino come riferisce Gessner: L'onocrotalo in greco viene chiamato onokrótalos a causa della sua voce sgradevole grazie alla quale somiglia a un asino che raglia. [...] Viene detto onocrotalo in quanto immergendo il collo in acqua, e soffiando, emette per così dire un raglio d'asino.

In medio stat virtus. Noi ci affidiamo a Bernhard Grzimek che in Vita degli animali (1971) afferma: Gli adulti fanno udire di rado la propria voce, lanciando suoni simili a sibili, sbuffi, gemiti o grugniti; di quando in quando battono l'uno contro l'altro i rami del becco, producendo un rumore notevole. I piccoli per contro emettono continuamente cupi suoni lamentosi, simili al belato delle pecore, a muggiti o squittii e grugniti, ma si percepiscono se non si è visti, altrimenti i piccoli tacciono al pari degli adulti.

L'avvoltoio nella Bibbia

Nella Bibbia non ci viene ammannito un avvoltoio che per 100 giorni non abbandona il nido oltre a nutrire i piccoli col suo sangue, come invece ci propina Orapollo. Nel Vecchio Testamento l'avvoltoio ricorre alcune volte, ma l'unico dato che gli viene ascritto è quello alimentare: esso si nutre di cadaveri. Non ne vengono specificate le caratteristiche somatiche, eccetto in Michea I,16: Tàgliati i capelli, ràsati la testa per via dei tuoi figli, tue delizie; renditi calva come un avvoltoio, perché vanno in esilio lontano da te. (CEI, 1974)

La traduzione italiana del Vecchio Testamento della CEI testé citata deve essere opera di esperti in ornitologia. Nell'area che si affaccia sul Mediterraneo è certa l'esistenza di due avvoltoi calvi: l'avvoltoio monaco, Aegypius monachus, e il grifone, Gyps fulvus. Non conosco il termine ebraico che designa questo uccello di Michea. Fatto sta che i Settanta l'hanno tradotto con ἀετός aetós, che significa solamente aquila, e non esistono aquile calve, e calvo non è neppure l'avvoltoio che va sotto il nome di gipeto – l'avvoltoio aquila – oggi classificato tra gli avvoltoi pur avendo caratteristiche somatiche che lo avvicinano appunto all'aquila.

È pertanto facile affermare che né i Settanta né San Girolamo fossero esperti di ornitologia. Infatti San Girolamo da buon linguista - e basta - traduce aetós di Michea con aquila: Decalvare et tondere super filios deliciarum tuarum dilata calvitium tuum sicut aquila quoniam captivi ducti sunt ex te. Questo testo è perfettamente sovrapponibile a quello della Nova Vulgata promulgata il 25 aprile 1979 da Giovanni Paolo II.

Invece nel Nuovo Testamento (CEI, 1974) ricorre solamente la caratteristica alimentare dell'avvoltoio: Matteo XXIV,28: Dovunque sarà il cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi. (οἱ ἀετοί hoi aetoí) – Luca XVII,37: Ed egli disse loro: "Dove sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi." (οἱ ἀετοί hoi aetoí).

Visto che nel Nuovo Testamento il termine greco per identificare l'avvoltoio è aetós, traducibile solo con aquila, quanto affermato circa l'ignoranza ornitologica dei Settanta possiamo attribuirlo tanto ai due Evangelisti che a Dio che li ispirò (Gesù parlava il galileo, dialetto aramaico giudaico della Palestina). Infatti i cadaveri vengono adocchiati dagli avvoltoi, solo in casi speciali dalle aquile. Inoltre non si salva dalla critica neppure San Girolamo, che da buon linguista traduce i due passi evangelici con aquila: Ubicumque fuerit corpus illuc congregabuntur aquilae. - Qui dixit eis ubicumque fuerit corpus illuc congregabuntur aquilae. Ovviamente i traduttori dell'attuale versione in italiano della CEI sono immuni dalla critica. Invece la Nova Vulgata del 1979 si accompagna a San Girolamo: i due testi, anche in questo caso, sono sovrapponibili. C'è solo un'ipotesi che potrebbe giustificare gli Evangelisti: con aetós essi volevano indicare quell'avvoltoio che può essere scambiato per aquila e che oggi è detto gipeto, il quale riunisce nel nome scientifico tanto l'aquila che l'avvoltoio: Gypaetus barbatus (gyps = avvoltoio e aetós = aquila). In effetti anticamente il gipeto era considerato un'aquila, anche se in greco esisteva un nome che lo identificava, ben diverso da aetós, cioè φήνη phënë, traducibile anche con ossifraga.

Comunque: gli avvoltoi sono dei necrofagi per antonomasia, degli spazzini, tanto che pare avessero escogitato di seguire lo spostamento delle truppe per poi nutrirsi dei cadaveri, come nel IV secolo aC riferiva Aristotele (Historia animalium VI,5: questi uccelli compaiono d’improvviso in gran numero al seguito degli eserciti), magari ripreso da Claudio Eliano nel III secolo dC che riferisce la stessa notizia nel suo capolavoro La natura degli animali (II,46). Invece l'aquila è un rapace per antonomasia: la sua alimentazione consta di prede vive, pur non mancando, specialmente da parte di talune specie, il consumo di carogne, purché fresche.

Il pellicano nella Bibbia

Il termine ebraico kaath - vomitare - identificherebbe un uccello impuro - non kasher - e ricorre 5 volte nel Vecchio Testamento. In 3 passaggi la versione greca dei Settanta lo traduce con πελεκάν – pellicano – (Levitico 11,18 - Deuteronomio 14,17 - Salmi 102(101),7). In altri due passaggi viene tradotto con  ὄρνεα órnea – uccelli – (Isaia 34,11) e con  χαμαιλέοντες chamailéontes – camaleonti – (Sofonia 2,14). Si può supporre che i traduttori dei primi 3 kaath fossero diversi dai traduttori degli altri due.

Ma San Girolamo nella sua Vulgata traduce kaath di Isaia con onocrotalus, latinizzazione del greco ὀνοκρόταλος, un vocabolo che i Settanta non hanno mai impiegato: Et possidebunt illam onocrotalus et ericius et ibis et corvus habitabunt in ea. La CEI concorda con Girolamo e riporta pellicano: Ne prenderanno possesso il pellicano e il riccio, il gufo e il corvo vi faranno dimora.

La stessa concordanza fra Girolamo e CEI circa onocrotalus e pellicano la troviamo a proposito dei camaleonti dei Settanta rinvenibili in Sofonia 2,14: Et onocrotalus et ericius in liminibus eius morabuntur. - Anche il pellicano, anche il riccio albergheranno nei suoi capitelli.

Oggi, dopo discussioni a non finire protrattesi per secoli, ὀνοκρόταλος è considerato sinonimo di πελεκάν – pellicano, il quale nella terminologia scientifica si è accaparrato ambedue i lemmi: Pelecanus onocrotalus. Ma ancora ai tempi di Conrad Gessner (1555) Onocrotalus e Pelecanus erano due uccelli diversi, mentre, 48 anni dopo, Ulisse Aldrovandi (1603) li considerava sinonimi.

Credo non valga la pena proseguire nell'analisi del Vecchio Testamento. Ci siamo infatti resi conto che tradurre correttamente un termine quale kaath dipende dalla preparazione non solo linguistica, ma anche naturalistica del traduttore, un pregio che forse i Settanta non possedevano.

Nel Nuovo Testamento il pellicano è assente, e ciò è comprovato anche dall'assenza dei due termini greci con cui lo si identificava: sia πελεκάν che ὀνοκρόταλος.

Il pellicano e l'avvoltoio del Fisiologo di Sant'Epifanio

Pellicano - il padre che resuscita i suoi piccoli col sangue
Avvoltoio - l'uccello più vorace costretto a digiunare per 40 giorni

Sancti Patris nostri Epiphanii, Episcopi Constantiae Cypri, ad Physiologum
D. Consali Ponce de Leon Hispaniensis interpretis & scholiastae
Antverpiae – Ex Officina Christophori Plantini – 1588

La pellicana

Cap. viii - De pelecano - Περὶ τῆς Πελεκᾶνος

Capitolo viii – La pellicana

Prae omnibus volucribus pelecanus [ἡ πελεκᾶν] prolis est amans. Femina nido incubat, pullos suos custodiens; ipsosque fovet, complectiturque, et nimiis osculis sauciat; perforat itaque illorum latera, et illi moriuntur. Post tres vero dies accedit mas pelecanus, et mortuos invenit pullos, et valde angitur, doloreque impulsus proprium latus percutit, ac terebrat, emanatque sanguis, quem super mortuorum pullorum vulnera instillat, qui sic vitae restituuntur.

La pellicana - hë pelekân - è amante della prole più di tutti quanti gli uccelli. La femmina giace nel nido sorvegliando i suoi pulcini, e li scalda, e li cinge con le ali, e li colpisce con un numero di baci eccessivo; pertanto ne trapassa i fianchi ed essi muoiono. Ma dopo tre giorni arriva il pellicano maschio e trova i pulcini morti, e si addolora parecchio, e spinto dal dolore si percuote il fianco e lo fora, e scaturisce il sangue che istilla sulle ferite dei pulcini morti, i quali così vengono restituiti alla vita.

Interpretatio

Esegesi

Sic Dominus noster Iesus Christus, cuius latus lancea aperuit, continuoque sanguis et aqua exivit, super mortuos filios hoc est Adamum et Evam ceterosque prophetas et super omnes mortuos sanguinem suum fudit, universumque mundum illuminavit, et per triduanam sepulturam ac resurrectionem suam ad vitam illos reduxit. Quapropter per Prophetam dixit: Similis factus sum Pelecano solitudinis.

Così nostro Signore Gesù Cristo, il cui fianco una lancia aprì, e senza interruzione uscirono sangue e acqua§, versò il suo sangue sui figli morti, cioè Adamo ed Eva, e gli altri profeti, e sopra tutti i defunti, e illuminò tutto quanto l'universo, e con la sua sepoltura durata tre giorni nonché con la sua resurrezione li riportò alla vita. Questo è il motivo per cui attraverso il profeta disse: Sono diventato simile al pellicano del deserto§§.

§ Vangelo secondo Giovanni XIX,33: Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, [34] ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. (CEI)

§§ salmi - Vulgata Sancti Jeronimi 101,7: Similis factus sum pelicano solitudinis - Nova Vulgata 102 (101),7 Similis factus sum pellicano solitudinis – CEI 102, 7. - Sono simile al pellicano del deserto   Settanta 101,7 ὡμοιώθην πελεκᾶνι ἐρημικῷ.

 

L'avvoltoio

Cap. vii – De vulture - Περὶ τοῦ γυπός

Capitolo vii – L'avvoltoio

Vultur cunctis avibus voracior est: quadraginta enim diebus cibo abstinet, quem cum invenit, totidem se ex illo libris ingurgitat; itaque quadragenariam abstinentiam quadragenaria ingluvie compensat.

L'avvoltoio è il più vorace di tutti gli uccelli: infatti si astiene dal cibo per quaranta giorni, ma quando lo trova se ne rimpinza con altrettante libbre [40 x 327,45 g = 13 kg], e così compensa l'astinenza di 40 giorni con uno stomaco che contiene 40 libbre.

Interpretatio

Esegesi

Tu igitur spiritualis homo, qui in quadragesimali ieiunio Dominicam resurrectionem expectas, noli ventri foede indulgere, ne quadragesimalis abstinentiae meritum perdas.

Tu pertanto, o uomo dedito alle cose dello spirito, che durante il digiuno quaresimale attendi la resurrezione del Signore, non assecondare vergognosamente lo stomaco, per non perdere la ricompensa dell'astinenza quaresimale.

 

Il pellicano e l'avvoltoio di Orapollo

Pellicano - è un demente perché spegnendo il fuoco intorno al nido diventa una preda
Avvoltoio - non lascia il nido per 100 giorni e nutre i piccoli col suo sangue

Oro Apolline Niliaco
Delli segni hierogliphici
cioe delle significationi di scolture sacre appresso gli Egittij

Tradotto in lingua volgare per Pietro Vasolli
In Vinegia il 29 d’Ottobre nel 1547

[1.54] Come un mentecatto, o scemo di cervello. – Pellicano

Dipingendo il Pelicano uccello marino, significano un mentecatto: potendo questo uccello partorire ne i luoghi alti, come fanno tutti, non partorisce: ma zappando in la terra, fa l’ova nella fossa. La qual cosa sapendo gli uccellatori fregono intorno intorno il luogo col sterco di bue, e sottopongono il fuogo. Donde il Pelicano visto il fumo, volendo con le sue ali estinguere il fuogo, e non pur l’ammorza, ma con tal ventilare piu tosto l’accrescie: si che brusciate l’ali, facilmente è fatto preda de gli uccellatori. Per laqual cosa pericolando lui per cagione delli figliuoli, non è lecito che’ i Sacerdoti mangino il detto Pelicano. Niente dimeno molti delli Egittij ne mangiono, pensando quello non per giudicio, ma per natura mettersi a periglio per amore de i figliuoli.

[1.11] Che significa dipingendo un’Avoltoio. – Avvoltoio

Volendo significare la madre, o il vedere, o il termine d’una cosa, o l’antivedere, o l’anno, o misericordia, o Pallade, o Giunone, o due dramme, dipingono un’Avoltoio. La madre, perche in questa sorte d’uccelli non si trova il maschio: e la sua generatione si fa in questa foggia. Quando l’Avoltoio vuol partorire apre il vaso genitale verso Borea, e cosi sta per cinque giorni: ne i quali non mangia, ne beve: e cosi partorisce. [...] Dinota Misericordia, la qual cosa forsi parrà inconveniente, non consentendo questo animale in cosa alcuna a gli altri: nientedimeno l’hano posto a significare cotal cosa, per questa ragione. Imperoche in tutti li giorni cento, i quali spende solamente per nudrire i suoi figliuoli, non vola quasi mai: e se per sorte gli mancasse il cibo per allevarli, accioche non periscano di fame, impiagatosi la propria cossa gli dà a succhiare il sangue.

L'onocrotalo di Gessner
corrisponde al nostro Pelecanus onocrotalus

Conrad Gessner - Historia animalium III – 1555
De Onocrotalo
pagina 605

pagina 606 - Graece onocrotalus, ὀνοκρόταλος, appellatur propter absonam vocem, qua rudentem asinum refert: quod nomen etiam hodie Graecia servat. Italice grotto, et agrotto secundum Matthaeolum Senensem, vel grotto molinaro, vel grotto marino: aliqui ocello d’el ducha, id est avem ducis.

pagina 606 – L'onocrotalo in greco viene chiamato onokrótalos a causa della sua voce sgradevole grazie alla quale somiglia a un asino che raglia: ancora oggi in Grecia conserva tale nome. In italiano, secondo Pierandrea Mattioli di Siena, è detto grotto e agrotto, oppure grotto molinaro, o grotto marino: alcuni lo chiamano ocello d'el ducha, ossia, uccello del duca.

pagina 607 - Rostrum haec avis magnum habet, praelongum, et validum: et a gutture usque ad pectus instar sacculi (magni sacci, ante guttur et pectus, ex rostri inferiori parte ante pectus pendens) receptaculum longum et amplum, rubicundum, foras prominens, radici linguae eius annexum. In hoc cibus receptus primum emollitur: et inde ad stomachum digerendus transmittitur. alia cibi receptacula non habet, et ideo aquis vivere dicitur, Albertus et partim Author de nat. rerum.

pagina 607 – Quest'uccello ha un becco grande ed estremamente lungo, e forte: e dalla gola fino al petto a guisa di un sacchetto (di un grande sacco posto davanti alla gola e al petto, che pende davanti al petto dalla porzione inferiore del becco) si trova un ricettacolo lungo e ampio, rosseggiante, sporgente in fuori, connesso con la radice della sua lingua. In questa formazione il cibo che vi viene accolto viene dapprima reso molle: e quindi viene trasmesso allo stomaco per esservi digerito. Non possiede altri ricettacoli per il cibo, e pertanto si dice che vive di acqua, Alberto Magno e in parte l'Autore della natura delle cose.

pagina 608 - Onocrotalus dicitur quod collum aqua mergens, spiransque, veluti ruditum asini aedat, Perottus.

pagina 608 – Viene detto onocrotalo in quanto immergendo il collo in acqua, e soffiando, emette per così dire un raglio d'asino, Nicolò Perotto.

pagina 608 - Caeterum onocrotalus quem ipse captum vidi circa finem Februarii, in lacu ad Tugium, duobus Tiguro miliaribus nostris distante, cuius integri iconem dedimus, talis erat. Rostrum ad oculos usque duos dodrantes longum, circiter tres digitos latum. Rostro divaricato ab una extremitate ad alteram duo pedes spatii intererant. Margines rostri utrinque admodum acuti. Longitudo ab initio rostri ad pedes ultimos extensae avis, hominis proceritatem aequabat. Latitudo inter extrema alarum circiter decem pedes. Color crurum et pedum fuscus ut in cygnis. Totus erat albus, praeter maiores alarum pennas fuscas. Pondus totius avis librae duodecim unciarum, vigintiquatuor. Magnitudo et latitudo supra cygnum. Ingluvies rubicunda ad croceum inclinans, dodrantis longitudine a posteriore rostri parte recta deorsum: tam ampla ut brachium cum pugno facillime procul insereretur.

pagina 608 – D'altronde l'onocrotalo che verso la fine di febbraio io stesso vidi catturato nel lago nei pressi di Tugium, distante da Zurigo due delle nostre miglia, del quale intonso abbiamo fornito un'immagine, si presentava nel modo seguente. Il becco fino agli occhi era lungo circa 40 cm, largo circa 5 cm. Divaricato il becco, da un'estremità all'altra intercorreva uno spazio di 58 cm. I margini del becco erano acuti su ambo le parti – superiore e inferiore. La lunghezza dell'uccello allungato, a partire dall'inizio del becco fino all'estremità dei piedi, era pari all'altezza di un essere umano. La larghezza compresa fra le estremità delle ali era di circa 290 cm. Il colore delle gambe e dei piedi era scuro come nei cigni. Era tutto quanto bianco, eccetto le remiganti maggiori che erano nere. Il peso di tutto l'uccello era di 24 libbre da 12 once [24 x 327,45 g = 7,8 kg]. La grandezza e la larghezza erano superiori a quelle del cigno. Il gozzo era rosso tendente al giallo zafferano, lungo 20 cm andando dalla parte posteriore del becco dritto verso il basso: tanto grande da poterci inserire assai facilmente ben più di un avambraccio col pugno.

 

L'onocrotalo di Gessner
ricavato da Historia de gentibus septentrionalibus (1555) Liber XIX De Avibus capitolo XXXII
dello svedese Olaus Magnus
alias Olof Månsson (1490-1557)

Il pellicano di Gessner
corrisponde alla nostra spatola - Platalea leucorodia

Conrad Gessner - Historia animalium III – 1555
De Pelecano
Pelecanus ut vulgo a pictoribus effingitur
pagina 639

pagina 641 - Pleraeque gentes pelicani nomen tanquam peregrinae et incognitae avis, quam pro arbitrio pictores hactenus finxerunt, adunco ut videtur rostro pectus sauciantem, et effluentem sub ea sanguinem hiante ore excipientibus pullis: cum nulla talis, opinor, in rerum natura avis sit, nisi quis Aegyptios de vulture hoc vere tradere putet, quod Orus literis mandavit, eum ne fame pulli pereant, femori suo vulnus infligere, et emanantem sanguinem ab illis exorberi. Verum pelecanum, cuius iconem posuimus, Itali quidam hodie appellant becquaroveglia. Galli pale, truble, poche, a palae vel cochlearis figura, quam rostri latitudine refert.

pagina 641 - Per la maggior parte delle persone il nome di pellicano corrisponde a un uccello esotico e sconosciuto che i pittori finora hanno raffigurato in modo arbitrario, a quanto pare mentre si ferisce il petto con il becco adunco, e coi pulcini che con la bocca aperta prendono il sangue che gli defluisce in basso: mentre ritengo che in natura non esiste alcun uccello siffatto, a meno che qualcuno ritenga che gli Egiziani raccontino ciò come vero a proposito dell'avvoltoio, in quanto Orapollo ha tramandato per iscritto che, affinché i pulcini non muoiano di fame, lui infligge una ferita alla sua gamba e da essi viene bevuto il sangue che fuoriesce. Il vero pellicano, di cui abbiamo riportato l'immagine, alcuni Italiani oggi lo chiamano becquaroveglia. I Francesi lo chiamano pale, truble, poche, dall'aspetto di una pala o di un cucchiaio che fa riferimento alla larghezza del becco.

 

Platalea latino deriva dal greco πλατύς platýs = largo e piatto, riferito al becco paragonabile a una spatola. Leucorodia corrisponde a λευκορῳδιός leukorhøidiós di Aristotele che in latino suona albardeola = airone bianco, ed è composto da λευκός leukós = bianco, riferito al piumaggio, e da ῥῳδιός rhøidiós equivalente a ἐρῳδιός erhøidiós = airone, uccello d'acqua, in quanto se non si osserva il becco che è largo e piatto la platalea - la spatola - può essere scambiata con l'airone bianco.

Pelecanus di Gessner

L'onocrotalo o pellicano di Aldrovandi

Ornithologiae tomus tertius ac postremus – 1603
De Onocrotalo, seu Pelecano. - Liber xix. Cap. ii.

pagina 42 – Sed priusquam huiusce alitis historiam exordiar, benevolum lectorem volo admonitum, eum vero potissimum, qui {Ornitologi} < Ornithologi> de avibus lucubrationes legit, ne una cum illo, Onocrotalum diversum a {Pelecane} <Pelecano> Aristotelis existimet.

pagina 42 – Ma prima di dare il via alla storia di quest'uccello, voglio avvisare il benevolo lettore, soprattutto colui che legge le diligenti disquisizioni sugli uccelli dell'Ornitologo, che non si associ a lui nel ritenere che l'onocrotalo è diverso dal pellicano di Aristotele.

 

pagina 46 -  Descriptio - Omnium ferme regionum pictores, quibus, ut poëtis, quidlibet audendi semper fuit aequa potestas, Pelecanum tanquam avem peregrinam, ac incognitam pro arbitrio hactenus pinxerunt, eo, quo hic vides modo, adunco, ut apparet rostro pectus sauciantem, & effluentem sub ea sanguinem, hiante ore, excipientibus pullis: cum nulla talis meo iudicio avis sit, nisi quis Aegyptios de Vulture hoc vere tradere putet, quod Orus literis mandavit, eum ne fame pulli pereant, femori suo vulnus infligere, & emanantem sanguinem ab illis exorberi.

pagina 46 - Descrizione - I pittori di quasi tutte le nazionalità, ai quali, come ai poeti, è sempre appartenuta la stessa facoltà di osare qualunque cosa, fino a oggi hanno raffigurato in modo arbitrario il pellicano come un uccello esotico e sconosciuto, in quel modo che qui vedi, mentre, a come sembra, col becco adunco si ferisce il petto, e con i pulcini che con la bocca aperta bevono il sangue che fluisce in basso rispetto a lui: mentre ritengo che non esiste alcun uccello siffatto, a meno che qualcuno ritenga che gli Egiziani raccontino ciò come vero a proposito dell'avvoltoio, in quanto Orapollo ha tramandato per iscritto che, affinché i pulcini non muoiano di fame, lui infligge una ferita alla sua gamba e da essi viene bevuto il sangue che fuoriesce. [un evidente download da Gessner pag. 641]

 

Onocrotalus albus – foemina – mas
acquarelli
di Ulisse Aldrovandi

Per Aldrovandi il pellicano di Gessner
corrisponde all'Albardeola o Ardea alba
che oggi chiamiamo spatola - Platalea leucorodia

Ornithologiae tomus tertius ac postremus – 1603
De Albardeola, Platea Plinii.
{Platelea} <Platalea> Ciceronis,
quam Pelecanum facit Ornithologus.
Lib. xx. Cap. xiii. pagina 385

Gonzalo Ponce de León
per l'iconografia fasulla del pellicano
contenuta nella sua pubblicazione del Fisiologo di Sant'Epifanio
 dà la colpa
in parte al pellicano di Eliano per l'affetto verso la prole
in parte all'avvoltoia di Orapollo che si ferisce le gambe per nutrire i figli

Sancti Patris nostri Epiphanii, Episcopi Constantiae Cypri, ad Physiologum
D. Consali Ponce de Leon Hispaniensis interpretis & scholiastae
Antverpiae – Ex Officina Christophori Plantini – 1588

Cap. viii - De pelecano
Notae

Non meravigliamoci dell'identificazione ornitologica del pellicano proposta da Gonzalo, in quanto corrisponde a ciò che solo approfonditi studi di ornitologia antica sono stati in grado di chiarire, e talora solo in parte, come quelli magistralmente condotti da Filippo Capponi (Ornithologia Latina, 1979). Le affermazioni ornitologiche di Gonzalo corrispondono all'analisi contenuta nell'opera di Capponi.

Pelecanus. [31] Hunc Plinius Plateam, Cicero Plataleam, Hieronymus & Eucherius Onocrotalum vocant: pietatis autem in filios, Aegyptiis theologis symbolum fuit; cuius rei causa ex Horo colligitur, qui circa illarum venationem ita ferme scripsit; Pelecanus nidificat in scrobe in terra, quod non ignorantes aucupes, bubulo stercore locum circumlinunt, ignemque succedunt: ea vero fumum aspiciens aggreditur ignem alis extinguere, verumtamen ei tantum abest ad extinguendum astutia, ut magis magisque sua tanquam ventilatione incendat, idcircoque alis exustis capiatur.

Pellicano - [31] Plinio lo chiama Platea, Cicerone Platalea, San Girolamo e Sant'Eucherio lo chiamano Onocrotalus: inoltre per i teologi egiziani fu simbolo della devozione verso i figli; e la causa di ciò la si può desumere da Orapollo§, il quale a proposito della caccia che si dava alle loro femmine scrisse pressapoco così: Il pellicano nidifica sulla terra in una buca, e gli uccellatori, non essendone ignari, spalmano il posto con sterco bovino, e successivamente gli danno fuoco: ma la pellicana, vedendo il fumo, cerca di estinguere il fuoco con le ali, tuttavia tanto manca di astuzia per estinguerlo che le brucia via via di più, per così dire, con la sua ventilazione, e pertanto viene catturata dopo che le si sono bruciacchiate le ali.

§ Dipingendo il Pelicano uccello marino, significano un mentecatto: potendo questo uccello partorire ne i luoghi alti, come fanno tutti, non partorisce: ma zappando in la terra, fa l’ova nella fossa. La qual cosa sapendo gli uccellatori fregono intorno intorno il luogo col sterco di bue, e sottopongono il fuogo. Donde il Pelicano visto il fumo, volendo con le sue ali estinguere il fuogo, e non pur l’ammorza, ma con tal ventilare piu tosto l’accrescie: si che brusciate l’ali, facilmente è fatto preda de gli uccellatori. (traduzione di Pietro Vasolli, 1547)

Aelianus autem ea ratione hunc Pelecanorum adversus filios amorem coniectat, quod (idque & Herodios etiam [32] facere ait) cum aliunde cibus non suppetit, esculenta quae prius ederant evomant, & in educandos foetus convertant, pullisque imperitis ad volandum duces sint. lib 3. historiae cap. xxiii.

Ma Eliano è dell'avviso che l'amore dei pellicani per i figli (e dice che lo fanno anche gli aironi) consiste nel fatto che quando il cibo per un qualche motivo non è disponibile, vomitano il cibo che prima avevano mangiato e lo usano per allevare i piccoli, e che fanno da maestri per i pulcini inesperti nel volare. La natura degli animali III,23.§

§ La natura degli animali III,23 - Quando la cicogna ormai adulta ha bisogno di offrire del cibo ai figli ancora implumi e teneri dentro il nido, e per un caso fortuito quello le viene a mancare, essa allora rigurgita il cibo del giorno prima e li nutre. Sento dire che gli aironi fanno la stessa cosa, e anche i pellicani.

Sed horum in Aristotele nulla pene mentio: frequentior vero de Pelecanis ἐν τοῖς ποταμοῖς γενομένοις id est, fluviatilibus, tam in loco περὶ θαυμασίων ἀκουσμάτων: quam περὶ ζώων ἱστορίας: ubi docet quo modo solidas conchas devorent, quas calore concoctas, ob idque dehiscentes, evomant, & carnem testis abiectis edant.

Ma nel vero Aristotele non si fa praticamente menzione di queste cose: infatti vengono più comunemente riferite riguardo ai pellicani che vivono nei fiumi, cioè fluviatili, sia in un passo dei Mirabilia§ che in Historia animalium IX,10§§ dove riferisce in che modo inghiottono delle conchiglie compatte, e dopo averle digerite col calore, che pertanto grazie a esso si aprono, le vomitano, e dopo aver eliminato i gusci le mangiano.

§ Mirabilia XIV - Dicono che i pellicani divorino le conchiglie che si trovano nei fiumi dopo averle rotte; poi, quando ne hanno succhiato una gran quantità, le vomitano, e così mangiano la polpa delle conchiglie, ma non si cibano dei gusci.

§§ Historia animalium IX,10 - Pelicans that live beside rivers swallow the large smooth mussel-shells: after cooking them inside the crop that precedes the stomach, they spit them out, so that, now when their shells are open, they may pick the flesh out and eat it. (traduzione di D'Arcy Wentworth Thompson, 1910)

Simile quid est apud Cyrillum in Iambis:
Τίς πελλεκάνων [sic!] ἀντὶ λόγχης τὸ στόμα
Ξένοις διωργάνωσε μακροκοντίοις,
Καὶ χάσμα τούτοις ἐξανοῖγε πάμφαγον,
Πρὸς τὰς ἀπλήστοις ἁρπαγὰς τῶν ἰχθύων;
Quae sic forsan reddi possunt:
Quis platalearum rostrum in modum lanceae
Externis aptavit longisque hastilibus;
Et voraginem ipsis aperuit omnivoram
Ad inexplebiles rapinas piscium{.}<?
>

Qualcosa di simile è presente in San Cirillo di Alessandria nei suoi giambi§:
Tís pellekánøn antì lógchës  tò stóma
Xénois diørgánøse makrokontíois,
Kaì chásma toútois exanoîge pámphagon,
Pròs tàs aplëstois harpagàs tøn ichthúøn?
Versi che forse si possono tradurre così:

Chi fornì il becco fatto a lancia dei pellicani – delle plataleae – di aste insolitamente lunghe, e aprì loro una voragine onnivora capace di predare in modo insaziabile i pesci?

§ Scripta quae sub Cyrilli Alexandrini nomine ferunturPoëma iambicum περὶ ζώων ἰδιότητος καὶ φυτῶν de animalium et plantarum proprietate - Patrologiae Graecae tomus LXVIII Jacques-Paul Migne – Paris 1864

Perforat  itaque.

Pertanto  perfora

A serpentibus Pelecanorum filios occidi, & parentum sanguine vivificari auctor est Hieronymus, sive epistolae ad Praesidium auctor. Ab Isidoro cap. de Avibus, in hunc modum hac de re agitur: Fertur, si verum est, Pelecanum occidere natos suos, eoque per triduum lugere, deinde seipsam vulnerare, & aspersione sui sanguinis vivificare filios. Eadem fere sunt apud Augustinum in commentario ad psal.  101. & Greg. super Psal. V. Poenitential.

San Girolamo, ossia l'autore della lettera al diacono Presidio§, scrive che i figli dei pellicani vengono uccisi dai serpenti e vengono riportati in vita dal sangue dei genitori. In Sant'Isidoro, nel capitolo relativo agli uccelli§§, si parla di quest'argomento nel modo seguente: Si riferisce, se è vero, che il pellicano – la pellicana, in quanto Isidoro ha eam occidereuccide i suoi pargoli, e che pertanto piange per tre giorni, e che poi ferisce sé stessa e fa tornare vivi i figli con l'aspersione del proprio sangue. Quasi le stesse cose si trovano in Sant'Agostino nel commento al salmo 101§§§ e in San Gregorio nel commento al 5° salmo penitenziale§§§§.

 

§ Epistola XVIIIAd PraesidiumDe cereo paschali – 4: Pelicani cum suos a serpente filios occisos, mortuos inveniunt, lugent, et se et sua latera percutiunt et sanguine excusso ad corpora mortuorum sic reviviscunt.

§§ Etymologiae XII,7,26 - Pelicanus avis Aegyptia habitans in solitudine Nili fluminis, unde et nomen sumpsit; nam Canopos Aegyptus dicitur. Fertur, si verum sit, eam occidere natos suos, eosque per triduum lugere, deinde se ipsam vulnerare et aspersione sui sanguinis vivificare filios.

§§§ Enarrationes in Psalmos In Psalmum 101 - Primo quid sit pelicanus, dicendum est. In ea quippe regione nascitur, ut nobis ignota haec avis sit. Nascitur in solitudinibus, maxime Nili fluminis, in Aegypto. Quaelibet sit avis haec, quod de illa Psalmus dicere voluit, hoc intueamur. Habitat, inquit, in solitudine. Quid quaeris formam eius, membra eius, vocem eius, mores eius? Quantum tibi Psalmus dicit, avis est habitans in solitudine. [...] Dicuntur hae aves tamquam colaphis rostrorum occidere parvulos suos, eosdemque in nido occisos a se lugere per triduum: postremo dicunt matrem seipsam graviter vulnerare et sanguinem suum super filios fundere, quo illi superfusi reviviscunt. Fortasse hoc verum, fortasse falsum sit: tamen si verum est, quemadmodum illi congruat, qui nos vivificavit sanguine suo, videte.

§§§§ Expositio in septem psalmos penitentiales Explanatio quinti psalmi penitentialispsalmus 101 versus 7 Similis factus sum pelicano solitudinis. Pelicanus avis est amans solitudinem, in qua venenatis animalibus vescitur; et ideo per eam peccator designatur, qui in deserto huius mundi corde habitans, aerumnosis istius vitae captus illecebris, veneno delectatur diabolicae persuasionis.

Ex Alberto autem idem fere colligitur; nisi quod a filiis provocatos parentes (quos illi mox, ut adolescunt, in faciem percutiunt) impatientes iniuriae, colaphis rostrorum eos caedere, & interficere dicit. quibus addit, post sanguinis effusionem adeo debilitari Pelecanum, ut de nido exire non valeat, & pulli pro sua ac parentis cibatione evolare cogantur. Verum [33] horum quidam propter ignaviam aut impietatem in parentem, exire nolunt, & pereunt; quidam autem seipsos quidem pascunt, parentem vero penitus negligunt; qui ut convalescit, pios filios nutrit, impios vere abiicit, & contemnit.

Da Sant'Alberto - De animalibus XXIII - si desume quasi la stessa cosa, senonché dice che i genitori, provocati dai figli (non appena cominciano a crescere, i figli li percuotono sulla faccia) non sopportandone l'oltraggio, li feriscono con colpi di becco e li uccidono. Al che aggiunge che dopo l'effusione di sangue il pellicano viene talmente debilitato da non essere in grado di uscire dal nido e che i pulcini vengono costretti a levarsi in volo sia per il loro nutrimento che per quello del genitore. Ma alcuni di loro, o per pigrizia o per irriverenza nei confronti del genitore, non vogliono uscire e muoiono; ma alcuni si nutrono, tuttavia trascurano completamente il genitore, il quale, appena si ristabilisce, nutre i figli devoti, mentre scaccia quelli crudeli e li disprezza.

Sed isthaec (ut & ipse Albertus agnoscit) nullo aut experimento, aut veteri probato testimonio affirmari possunt. Quare verius puto hanc Pelecani figuram rostro pectus sauciantem ac supra pullos sanguinem instillantem, pro arbitrio pictorum hucusque nobis exhibitam, nec ullam huiusce naturae avem usquam esse: partimque ex Aeliani loco de pietate eiusdem avis in filios, partim ex Horo, qui vulturem scripsit femora sauciare, & ex fluenti sanguine pullos pascere, hoc omne fuisse effictum.

Ma queste cose (come ammette anche lo stesso Alberto) non possono venire affermate né dall'esperienza né da una testimonianza antica e degna di fede. Per cui con una certa fondatezza ritengo che questa raffigurazione del pellicano che con il becco si ferisce il petto e istilla il sangue sui pulcini ci è stata finora propinata grazie all'arbitrio dei pittori, e ritengo che da nessuna parte esista un uccello dotato di siffatte caratteristiche: e che il tutto fu raffigurato in parte basandosi sul passo di Eliano che parla dell'affetto del medesimo uccello verso i figli, in parte su quello di Orapollo, il quale scrisse che l'avvoltoia§ si ferisce le gambe e nutre i pulcini con il sangue che ne defluisce.

§ Dinota Misericordia, la qual cosa forsi parrà inconveniente, non consentendo questo animale in cosa alcuna a gli altri: nientedimeno l’hano posto a significare cotal cosa, per questa ragione. Imperoche in tutti li giorni cento, i quali spende solamente per nudrire i suoi figliuoli, non vola quasi mai: e se per sorte gli mancasse il cibo per allevarli, accioche non periscano di fame, impiagatosi la propria cossa gli dà a succhiare il sangue. (traduzione di Pietro Vasolli, 1547)

Quod et Hebraeorum sententia comprobatur, qui fatentur ingenue, nescire se quae avis sit Pelecanus. At liberum esto (quid enim impediamus?) & inventis pro libro uti, & nova (si cui placuerit) etiam addere.

Il che viene comprovato dall'affermazione degli Ebrei, i quali ammettono apertamente di non sapere che uccello sia il pellicano. Ma ritieniti libero (perché mai dovrei impedirlo?) sia di servirti di nuove conoscenze invece del libro, come pure (se qualcuno lo gradirà) di aggiungervi degli aggiornamenti.

 

Fenomenale il nostro Gonzalo! Con l'ultima frase lascia aperto il campo a qualsivoglia aggiunta alle sue note relative al testo di Sant'Epifanio. Per cui credo stia gioendo nella tomba venendo a conoscenza delle mie conclusioni iconografiche più volte preannunciate e che tra poco vedremo. Ovviamente Gonzalo non poteva permettersi di elaborare un'ipotesi blasfema ma forse veritiera quanto la mia, dal momento che era segretario di papa Sisto V, al secolo Felice Peretti (1520-1590). Probabilmente Gonzalo non sapeva che l'iconografia da lui criticata risaliva ad almeno 3 secoli prima dell'arrivo del testo di Orapollo, per cui gioirà doppiamente.

Il pellicano amoroso nell'iconografia

Secondo il Fisiologo si becca il fianco
secondo Orapollo si becca la coscia
per lo più lo vediamo beccarsi il petto

Anche Dante Alighieri (1265-1321), quarant'anni più giovane di San Tommaso, paragona Cristo al pellicano (Paradiso XXV,112-114), ma ovviamente non ce lo descrive né ce ne dà un'iconografia. Colui che si era appoggiato al petto del pellicano durante l'Ultima Cena è l'apostolo San Giovanni, al quale Gesù dalla croce, e ormai in punto di morte, decretò di sostituirlo nel gravoso compito di figlio:

«Questi è colui che giacque sopra 'l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto§».

§ Vangelo di San Giovanni XIX: [25] Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. [26] Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!". [27] Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!". E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

Grazie a Elizabeth Braidwood e alla sua ricchissima collezione iconografica - reperibile nel sito  http://donna.hrynkiw.net - riservata al simbolismo del pellicano nei secoli, abbiamo la riprova che il pellicano, salvo alcune varianti che nulla hanno a che fare col pellicano, veniva raffigurato come avvoltoio o come un qualche uccello da preda già a partire dalla metà del XII secolo e che ha continuato a battere questo cammino sia nei bestiari che nell'iconografia sacra nonché in araldica fino a tutto il XVII secolo, con strascichi ancora presenti nel simbolismo religioso del II millennio, come è il caso dell'immagine dovuta a Padre William Hart McNichols (Ranchos de Taos, New Mexico, USA) che riproduce San Padre Pio da Pietrelcina, canonizzato nel 2001, il quale reca sul petto l'avvoltoia coi suoi piccoli, mentre nella didascalia si legge tutt'altro: "Saint Padre Pio - Mother Pelican - Saint Padre Pio, who lost considerable quantities of blood each day through the Stigmata, wounds in mystical emulation of the crucifixion wounds of Christ, is pictured here with the Pelican."

Dal momento che San Basilio e Sant'Ambrogio avevano assimilato la partenogenesi di Maria a quella dell'avvoltoia, tant'è che l'avvoltoia era assurta a simbolo della verginità feconda di Maria, è quasi automatico asserire che se gli iconografisti non volevano essere accusati di empietà, era d'obbligo raffigurare Cristo, figlio di un'Avvoltoia, non come Pelecanus onocrotalus, bensì come capovaccaio, Neophron percnopterus, oppure come gipeto, Gypaëtus barbatus.

La partenogenesi dell'avvoltoia venne più tardi smentita da Sant'Alberto (ca. 1200-1280), maestro di San Tommaso, affermando che era assai frequente osservare gli avvoltoi tedeschi dediti a delle belle ammucchiate: Quod etiam dicitur quosdam vultures concubitu non uti omnino falsum est: quia ibi saepissime permisceri videntur. - Anche ciò che si dice, che alcuni avvoltoi non si servono dell'accoppiamento, è del tutto falso: in quanto qui - in Germania - li si vede assai spesso congiungersi tra loro. (De animalibus XXIII vultur)

Tuttavia, nonostante la perentoria affermazione di Sant'Alberto, agli iconografisti parve più facile e magari più remunerativo continuare a cimentarsi nel migliorare le fattezze e gli atteggiamenti del falso pellicano, che nelle rappresentazioni che aprono il capitolo VIII del Fisiologo di Sant'Epifanio del 1587 e del 1588, oltre ad avere le zampe da avvoltoio - cioè non palmate, al contrario di quelle del pellicano - assomiglia appieno non solo all'avvoltoio del capitolo VII, ma anche all'aquila del capitolo VI.

De avibus di Hugue de Fouilloy – circa 1150

Immagine cronologicamente non influenzata da Orapollo

Diagnosi ornitologica – Sia nell'adulto che nei nidiacei le zampe non hanno dita palmate.
Il becco, pur non essendo nettamente caratterizzato, non ricorda assolutamente quello di un pellicano.
La lunghezza del collo, come in altre raffigurazioni, pare essenzialmente dettata dalla necessità
di rappresentare l’uccello nell'atto di beccarsi il petto.

Il pellicano tratto da A Glossary of Greek Birds 1895 di D’Arcy Wentworth Thompson

Immagine cronologicamente non influenzata da Orapollo

Diagnosi ornitologica – Becco e capo decisamente da rapace, tarsi molto allungati.

Bestiario di Aberdeen – circa 1200

Immagine cronologicamente non influenzata da Orapollo

Diagnosi ornitologica – Diversi individui rappresentati. Tutti, quale più quale meno,
con capo e becco decisamente da Accipitride (aquilino). Zampe non palmate.

Pietà di Lorenzo Monaco – 1404

Immagine cronologicamente non influenzata da Orapollo

Diagnosi ornitologica – Becco allungato dritto, quasi da airone.

Pietà di Lorenzo Monaco – 1404 – particolare

Immagine cronologicamente non influenzata da Orapollo

Diagnosi ornitologica – Becco allungato, dritto, quasi da airone.

Lorenzo Monaco - Pittore e miniatore italiano (forse Siena ca. 1370 - Firenze 1423). Entrato nel 1390 nel convento fiorentino di Santa Maria degli Angeli, vi apprese l'arte della miniatura; nel 1402 si iscrisse alla corporazione dei pittori col nome laico di Piero di Giovanni. Le prime opere datate risalgono al 1404 e sono la Pietà della Galleria dell'Accademia di Firenze e il trittico del Museo della Collegiata di Empoli: se la prima opera è ancora legata alla cultura del tardo Trecento fiorentino, la seconda mostra già il raffinato e fluente linearismo e la gamma cromatica viva e brillante che caratterizzeranno le opere successive.

Bestiario francese – circa 1450
Conservato presso il Museum Meermanno – L'Aia - Olanda

Diagnosi ornitologica – Becco e artigli ricurvi decisamente da rapace.
Forma e lunghezza del becco, assieme alle zampe non palmate,
escludono qualsiasi somiglianza con pellicani.

Pellicano di Orapollo
edizione in francese - Parigi 1543

Diagnosi ornitologica – Becco e atteggiamento da rapace. Penne arricciate su capo e collo
che possono richiamare le penne nucali allungate e sollevate in atteggiamento aggressivo di alcuni accipitridi.

Pellicano di Pierius Valerianus alias Giovan Pietro Bolzani (1477-1560)
Hieroglyphica, sive de sacris Aegyptiorum literis commentarii 1556

Diagnosi ornitologica – Non molto ricco di particolari, ma becco corto e adunco, da rapace.

Pellicano in un paliotto della Lombardia
fine del XVI – fine del XVII secolo

Diagnosi ornitologica – Becco e atteggiamento da rapace (aquiloide). Penne arricciate su capo e collo
che possono richiamare le penne nucali allungate e sollevate in atteggiamento aggressivo di alcuni accipitridi.
Zampe non palmate.

Paliotto -  Rivestimento esterno della parte anteriore dell'altare, che talora può anche proseguire sugli altri lati del medesimo. In uso fin da epoca altomedievale, ebbe ampio sviluppo specialmente in epoca romanica e gotica, con esemplari in marmo o legno scolpiti, lamine sbalzate in oro e argento, tessuti preziosamente ricamati.

Crest of Corpus Christi College
Cambridge UK - 1570

Diagnosi ornitologica – Rappresentazione con coda, becco e atteggiamento ad ali sollevate (un po' araldico)
che richiama nettamente un rapace. Ritornano le penne arricciate su capo e collo.

Crest of Corpus Christi College - Cambridge UK
Created by Lewis MacDonald - July 2005

Diagnosi ornitologica – Lo stemma riporta due figure piuttosto schematiche che richiamano decisamente,
soprattutto per la forma del becco, un vero pellicano.

Iconografia esatta, ma, ancora nel 2009, non adottata dal Corpus Christi College.

Aquila – Fisiologo di Sant'Epifanio - 1587

Avvoltoio – Fisiologo di Sant'Epifanio - 1587

Pellicano – Fisiologo di Sant'Epifanio – 1587

Diagnosi ornitologica – Becco in apparenza relativamente corto e appuntito.
Coda e tarsi lunghi escludono la somiglianza con pellicani.

Aquila – Fisiologo di Sant'Epifanio - 1588

Avvoltoio – Fisiologo di Sant'Epifanio - 1588

Pellicano – Fisiologo di Sant'Epifanio – 1588

Diagnosi ornitologica – Aspetto decisamente grifonoide di capo, becco, e zampe.
Penne del collo arricciate. Anche il paesaggio richiama pareti rocciose e montagne idonee
alla presenza di grifoni e aquile. Nido di grossi rami compatibile con quello di rapaci
(però in genere la prole è sempre troppo abbondante: i grifoni depongono un solo uovo, le aquile due).

Pellicano come viene raffigurato dai pittori
Conrad Gessner – 1555

Diagnosi ornitologica –  Becco e capo decisamente da rapace,
tarsi molto allungati non compatibili con quelli corti di un pellicano.

Il pellicano come viene raffigurato dai pittori - Ulisse Aldrovandi - 1603
Una bella copia di quello del XII secolo di D’Arcy Wentworth Thompson

Diagnosi ornitologica – Aspetto decisamente da grosso rapace
anche se i tarsi appaiono veramente lunghi.

Tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo di Valenza (AL)
databile non prima del XVII secolo

Diagnosi ornitologica – Collo allungato, becco e zampe assolutamente non da pellicano,
ma per quanto si vede più simili a quelle di un galliforme o di un rapace
(anche se il becco appare relativamente poco adunco).
Ali di fantasia.

Pelican stained-glass window, First Congregational Church, Amherst, Massachusetts
by Rebecca Kennison - 1998

Diagnosi ornitologica – Aspetto decisamente aquiloide di capo e becco,
collo eccessivamente lungo per questi uccelli (come in altre rappresentazioni).

Efesini V,25: E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei.

Stemma di Vella
Comune del distretto svizzero di Surselva nel cantone dei Grigioni

Diagnosi ornitologica – Disegno molto schematico, quasi caricaturale,
ma che ben rappresenta un pellicano.

Tabernacolo dell'altar maggiore - circa 1985
Chiesa parrocchiale San Giorgio - Nebbiuno (NO)

foto di Luca Civardi - 2009

Diagnosi ornitologica – Rappresentazione poco caratterizzata, ma che certamente non ricorda un pellicano.
Il becco piuttosto lungo e solo moderatamente ricurvo ricorda ad esempio quello di un gruccione.
Le zampe dei giovani non sono palmate.

Saint Padre Pio - Mother Pelican
by Father William Hart McNichols – circa 2001

Diagnosi ornitologica – L'aspetto complessivo del disegno richiama un grosso rapace,
ad esempio un’aquila.

Stato della Louisiana - USA

Sigillo dello Stato della Louisiana

Bandiera dello Stato della Louisiana

Nulla da eccepire a proposito dello Stato della Louisiana

Norcia in Provincia di Perugia
dove nacque San Benedetto (ca. 480 - Montecassino ca. 547)
fondatore dell'ordine dei Benedettini

Piazza San Benedetto con la basilica di San Benedetto

Domenica 10 giugno 2012 alle ore 11
in occasione della festa del Corpus Domini
si porta in processione un'Ostia consacrata

Foto del Dr Gino Campaniello di Cerignola (FG) che abita a Bologna

Diagnosi ornitologica – Disegno molto schematico, quasi caricaturale,
ma che ben rappresenta un pellicano.

Il cardinale Camillo Ruini alla festa di Padre Pio
una messa con 30 mila fedeli
San Giovanni Rotondo (Foggia)
ore 11.30 - domenica 23 settembre 2012

fonte
Il pellegrino di Padre Pio
www.pellegrinodipadrepio.it

Diagnosi ornitologica – Disegno molto schematico, quasi caricaturale,
ma che ben rappresenta un pellicano
sulla facciata anteriore dall'altare.

Pellicano sulla parte laterale del pulpito
Cappella Borghetto dei pescatori - XX secolo
Ostia Lido – frazione di Roma

Su lastra di plexiglas con pasta di rame, oro e piombo
vernici coprenti lucidate a smalto

L’ennesimo
falso Pellicano
scoperto grazie alla trasmissione di Rai 1
A SUA IMMAGINE
del 29 agosto 2015 – ore 17,15

Il falso Pellicano si trova a Urbino
nell’oratorio di San Giovanni Battista
al cui interno è possibile ammirare
nella parete dietro l'altar maggiore
un imponente ciclo di affreschi
dedicati alla Crocifissione di Cristo

in cima alla quale domina
il nostro ennesimo falso Pellicano

opera dei fratelli marchigiani Lorenzo e Jacopo Salimbeni
databile tra il 1415 e il 1416

Note conclusive di Giovanni Boano
volutamente tenuto all'oscuro
sul perché della sua preziosa consulenza ornitologica

A proposito delle penne arricciate su capo e collo va detto che oltre al pellicano comune esiste anche il pellicano riccio, che come dice il nome ha penne arricciate sulla nuca e parte superiore del collo. Tuttavia nessuna raffigurazione, a eccezione della caricatura più moderna di Vella e del rifacimento di Cambridge, presenta la benché minima somiglianza con il becco e le zampe di un pellicano, che peraltro sono molto caratteristiche (sopratutto il becco) e anche facili da imitare anche senza avere un modello cui ispirarsi in diretta.

Conclusione di Elio Corti

Stavolta l'avvoltoio o un suo simile
ha rappresentato un tranello per il Pellicano Amoroso
come già accadde per l'Immacolata Concezione

Valenza (AL) – Domenica 23 agosto 2009

Adoro te devote

Adoro te devote, latens Deitas,
quae sub his figuris vere latitas:
tibi se cor meum totum subjicit,
quia te contemplans totum deficit.

Ti adoro con devozione, o Dio nascosto,
che realmente ti celi sotto queste spoglie:
il mio cuore ti è tutto sottomesso,
perché contemplandoti tutto il resto viene meno.

Visus, tactus, gustus in te fallitur,
sed audìtu solo tuto creditur:
credo quidquid dixit Dei Filius:
nihil hoc verbo veritatis verius.

La vista, il tatto, il gusto non ti scorgono,
ma solo l’udito fa credere con certezza:
credo in tutto ciò che ha detto il Figlio di Dio:
nulla è più vero di questo Verbo.

In cruce latebat sola Deitas,
at hic latet simul et humanitas:
ambo tamen credens atque confitens
peto quod petivit latro paenitens.

Sulla croce solo la divinità restava nascosta,
ma qui si nasconde insieme l’umanità:
credendo a entrambe con fede
chiedo quello che chiese il ladrone pentito.

Plagas, sicut Thomas, non intueor:
Deum tamen meum te confiteor:
fac me tibi semper magis credere,
in te spem habere, te diligere.

Non vedo le piaghe come Tommaso:
tuttavia ti riconosco come mio Dio:
fa che sempre più io creda in te,
avere speranza in te, amarti.

O memoriale mortis Domini,
panis vivus vitam prestans homini,
praesta meae menti de te vivere,
et te illi semper dulce sapere.

O memoriale della morte del Signore,
pane vivo che dai vita all'uomo,
concedi alla mia mente di vivere di te,
e di avere sempre per lei un sapore dolce.

Pie pellicane Jesu Domine,
me immundum munda tuo sanguine,
cujus una stilla salvum facere
totum mundum quit ab omni scelere.

Gesù Signore, pellicano amoroso,
col tuo sangue purifica me che sono impuro:
una cui sola goccia può salvare
il mondo intero da ogni empietà.

Jesu, quem velatum nunc aspicio,
oro fiat illud quod tam sitio:
ut te revelata cernens facie,
visu sim beatus tuae gloriae. Amen.

Gesù, che ora ti vedo velato,
prego che avvenga ciò di cui ho tanta sete:
che, vedendo il tuo volto svelato,
io sia beato alla vista della tua gloria. Amen.