Vol. 1° -  VIII.9.4.

Un saggio
di transfert multiplo di personalità del Bolognese

Nel caso di Aldrovandi con il termine transfert o traslazione non dobbiamo intendere quel procedimento adottato in corso di psicoterapia atto a riversare sull'analista un insieme di pulsioni affettive e desideri inconsci originariamente rivolti ad altri oggetti, tipicamente alle figure parentali. Per Ulisse vogliamo intendere la sagacia più o meno coatta nell'indossare i panni altrui, nel travestirsi ora da Aristotele ora da vattelapesca con un solo e unico scopo: il tornaconto personale.

Nell'arco della mia professione medica costellata di inevitabili e indispensabili approcci psicoterapeutici non mi è mai capitato di osservare un caso come quello di Ulisse. La colpa – o il merito – spetta a Sandra Tugnoli Pattaro , la prima a pubblicare il Discorso naturale del nostro Bolognese in chiusura del suo ineguagliabile Metodo e sistema delle scienze nel pensiero di Ulisse Aldrovandi (1981). In tale scritto di circostanza, indirizzato a Giacomo Boncompagni figlio di Papa Gregorio XIII, Aldrovandi illustra nel dettaglio l'origine dei propri studi e interessi scientifici, la composizione del museo e le fonti della nuova filosofia naturalistica. Io aggiungo: il grande naturalista bolognese riversa in questo manoscritto anche le sue meravigliose doti di imbroglione.

Per inciso e per puri motivi storici, non certo per infamare di nepotismo il clan Boncompagni, mi pare corretto aggiungere che quando Ulisse stilò il Discorso naturale, suo proprocugino Giacomo era Castellano di Sant'Angelo, cioè prefetto di Castel Sant'Angelo. Infatti si era trasferito a Roma non appena il padre era stato eletto papa il 14 maggio 1572, e il 23 maggio, cioè dopo appena nove giorni da quando suo papà aveva perso l'accento diventando papa, nonché a 24 anni, che allora era considerata una tarda età ma che oggi è tenera, Giacomo fu nominato prefetto di Castel Sant'Angelo con l’appannaggio di 700 scudi d'oro, carica che manterrà per tutta la durata del pontificato paterno, cioè fino al 10 aprile 1585.

Prima di affrontare due raffinatezze psicologiche contenute nel Discorso naturale desidero premettere alcune considerazioni. Niente paura! Si tratta solo di psicologia spicciola e all'acqua di rose che ciascuno di noi - pur senza una specifica laurea - è stato in grado di elaborare con l'avvicendarsi delle esperienze interumane.

Siamo in grado di definire e di catalogare sia la nostra personalità che quella di un altro essere umano in base ad azioni molto semplici: dal modo di parlare, da come scriviamo, da come ci adorniamo, da come ci comportiamo a tavola. E se a tavola una persona ti indispone con il suo naso da stufato, puoi essere certo che questo naso lo esibirà identico anche in alcova: a conti fatti costui risulterà estremamente deludente. Quanto al modo di adornarci, non pensiamo solo ai lifting, ad acconciature rimpiazzate da un toupet se manca la materia prima (anche Ulisse ne sfoggiava uno forse per prevenire il raffreddore), non pensiamo solo a ninnoli, ad abiti firmati o a tatuaggi artistici. Queste cose saltano facilmente all'occhio. L'abilità sta nel sapersi adornare in modo elusivo. Per esempio, attraverso l'impostazione tipografica di un libro che siamo riusciti a pubblicare.

    

Aldrovandi con e senza toupet

con toupet - Olio su tela 790x620 già attribuito a Ludovico Carracci, il dipinto è da riferire al bolognese Bartolomeo Passarotti o Passerotti, uno dei pittori direttamente coinvolti nella “bottega artistica” aldrovandiana. Una copia del ritratto di Ulisse Aldrovandi, oggi nella Biblioteca Universitaria di Bologna, fu eseguita nella prima metà del 1800 dal bolognese Pelagio Pelagi o Palagi. Come ricorda un cartellino apposto sul retro della tela, il dipinto, copiato da Pelagi per desiderio dei conti Marescalchi - che possedevano l'originale passato poi nella collezione Lochis e quindi all’Accademia Carrara - fu donato dal pittore ritrattista Ippolito Bentivoglio all'Orto Botanico bolognese il 9 febbraio 1877, per essere poi trasferito alla Biblioteca Universitaria.

senza toupet - Il ritratto inserito nel primo volume dell'Ornithologia del 1599, e utilizzato più volte nelle successive edizioni delle opere aldrovandiane, è accompagnato dal distico composto dal fedelissimo discepolo Giovanni Cornelio Uterverio che non era certamente un detrattore di Ulisse, anzi, scrisse che tra Ulisse e Aristotele l'unica differenza non era l'ingegno, bensì il volto:

Non tua, Aristoteles, haec est, sed Ulyssis imago:
Dissimilis vultus, par tamen ingenium.

Facciamo degli esempi pratici e facilmente documentabili. Contemporaneo di Aldrovandi fu lo zurighese Conrad Gessner (1516-1565). Il suo primo trattato di zoologia Historia animalium I (1551) nell'intestazione di tutte le pagine pari reca De quadrupedibus, in quella delle pagine dispari De Alce Lib. I, cambiando di volta in volta tale intestazione col nome del nuovo animale trattato. Pertanto, mentre di qualunque pagina possiamo sapere il contenuto, per conoscerne invece l'autore è d'obbligo andare al frontespizio: infatti in 1000 e più pagine di testo il suo nome non compare più.

Nel 1598 veniva pubblicato Dell'anatomia, et dell'infirmità del cavallo di Carlo Ruini (ca.1530-1598) magistrato, concittadino nonché contemporaneo di Ulisse, un trattato che ho tra le mani in due volumi stampati a Venezia nel 1618. Nelle intestazioni delle pagine ritroviamo ciò che abbiamo detto per Gessner. Per esempio: pagina pari Dell'Anatomia, pagina dispari Del Cavallo Lib. I. Il nome dell'autore campeggia nel frontespizio e basta.

Ma non c'è due senza tre. Il terzo esempio ci viene da colui che una volta per tutte spianò la strada alla mia specialità in cardiologia: William Harvey (1578-1657), lo scopritore della vera circolazione del sangue. Aveva iniziato gli studi di medicina a Cambridge per completarli a Padova sotto la guida di Girolamo Fabrizi d'Acquapendente (1533-1619). Ebbene, anche William nella sua Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus pubblicata a Francoforte nel 1628 fece scrivere nelle intestazioni pari Exercitatio anatomica e in quelle dispari de motu cordis &c. Anche in questo caso il nome dell'autore lo troviamo solo nel frontespizio. Oddio! se qualcuno facesse un controllo sulla Exercitatio anatomica potrebbe magari dire che racconto panzane alla Aldrovandi: infatti William Harvey compare anche in calce alle due dediche che precedono il proemio e Guilielmus Harveius equivale a una firma. Invece il proemio non è firmato.

Per Aldrovandi accade il contrario: se prima di sfogliare un suo trattato non avremo l'avvertenza di imporci una cecità psicogena, saremo colti dalla nausea nel leggerne e rileggerne nome e cognome in tutte le intestazioni delle pagine pari. Quindi in un suo trattato di 1000 pagine troviamo 500 volte Ulyssis Aldrovandi e dall'intestazione delle pagine dispari potremo solo dedurre se stiamo leggendo un trattato di ornitologia oppure di entomologia, giammai di quale animale si sta disquisendo. E questa impostazione estremamente egocentrica fu per certo lasciata in eredità spirituale ai suoi discepoli. Infatti il De quadrupedibus solidipedibus venne pubblicato postumo a cura di Ioannes Cornelius Uterverius e le intestazioni delle pagine ricalcano fedelmente quelle dei trattati pubblicati personalmente da Ulisse.

Visti i vari testi del 1500/1600 che a causa del pollo ho dovuto scartabellare leggere e decifrare, in data venerdì 17 novembre 2006 posso affermare che finora ho colto in fallo solo Andrés de Laguna, reo dello stesso peccato di Aldrovandi, perpetrato però una sola volta. Infatti, tra le numerose opere pubblicate, solamente in Annotationes in Dioscoridem Anazarbeum del 1554 il nostro Andrés si lascia andare a un egocentrismo tronco. Nell'intestazione delle pagine pari campeggia – per così dire – Andr. Lac., mentre in quella delle pagine dispari veniamo informati circa il libro di Dioscoride di cui stiamo leggendo le Annotationes, per esempio: annot. lib. i..

Sì, un po' di esibizionismo più o meno larvato fa parte del corredo di ognuno di noi e talora serve a rendere la vita meno monotona. Basti pensare alle stimmate dei vari Santi che è d'obbligo nascondere con bendaggi, non per eccitare la nostra fantasia – dicono – ma per impedire traumi visivi negli astanti. La stessa cosa la si esige per un seno femminile che deve essere coperto quel tanto che basti per non violare né la privacy né il pudore, non certo per renderlo ben più appetibile. Invece c'è chi sfodera stimmate e quant'altro senza prendersi la briga di dover eccitare la nostra fantasia con barriere visive. Come abbiamo appena visto uno di costoro fu proprio Ulisse. Quando rimasi colpito dal modo in cui aveva fatto intestare le pagine dei suoi trattati, un modo incurante - se non sprezzante - del lettore, ho subito controllato se per caso anch'io fossi caduto nella stessa trappola riservata ai megalomani. Per fortuna no: il cartaceo della Summa Gallicana che solo pochi eletti posseggono riporta nell'intestazione dispari Summa Gallicana, in quella pari il numero e il titolo della sezione: per esempio, VIII - Il Pollo nella storia. Il mio nome e cognome campeggiano solo in copertina.

Torniamo al Discorso naturale di Aldrovandi. Nell'ottobre del 2005 trovo il Discorso nel web, lo scarico, lo trasformo in un file di Word – una trentina di pagine formato A4, 25.942 parole, 135.860 caratteri – e mentre lo leggo ne curo anche l'impaginazione. Una lettura difficile, essendo in un italiano del 1500 che per noi non è assolutamente scorrevole, anzi, quasi più difficile del latino, ma il pollo me lo impone. Ogni tanto prendo fiato e poi, di botto, vado in apnea.

All'inizio del Discorso, si fa per dire, e precisamente in c. 512v. corrispondente a pagina 6 in A4, Ulisse sta parlando di uccelli e mi mette con le spalle al muro. Quasi non credo ai miei occhi:

"Et fra questi alcuni se ne ritrovano hanno tre dita nella parte davanti et uno di dietro, sì come sono la maggior parte degl'uccelli - altri sono che hanno due dita nella parte dinanzi et due di dietro, a guisa di papagalli et picchi, et altri che vivono di vermicelli su gl'arbori, che col becco li forano et tirano a sé gl'animaletti che vi sono dentro, de quali si nutriscono empiendosene la lor lingua e tirandoseli poi a sé, quai animaletti erano rinchiusi fra la corteccia et il legno. Fra questi ancora sono alcuni uccelli, detti spininori, che vivono fra le spine, sì come il cardellino, il salo, cioè fanello, il picchile, cioè varia - altri sono chiamati caruphagi, cioè magnatori di frutti e semi - altri sono scoligophagi, che magnano i vermi, come l'alcinoo, floro, detto caurenzolo a Bologna, et ematopos, chiamato gambiletta. Se ne ritrovano alcuni detti pamphagi dal Philosopho, cioè magnatore d'ogni cosa, come l'uppupa, gallo del paradiso detto a Padova. Fra questi uccelli altri se ne trovano che hanno cinque dita, sì come il porphirio, quale ho avuto di Spagna, chiamato in lingua loro telamone."

Ma come? – mi dico – nel II volume di ornitologia pubblicato nel 1600 sbandiera di non aver mai visto uccelli con 5 dita, che gli hanno regalato una zampa pentadattila, e siccome sono pentadattili solo gli uccelli mostruosi si è premurato di metterla nel museo – [197] neque in avium hoc genere, nec in alio observari, nisi in monstris ex abundantia materiae videamus: qualis ille pes penctadatilos (sic!) est, quem mihi olim nescio a quo donatum in musaeo meo reservo -, ed ecco che un bel po' prima del 1600 aveva visto un porfirione con 5 dita, mentre non vede le 5 dita del gallo e della gallina hirsutis pedibus che gli acquarellisti e gli incisori gli hanno riprodotto con precisione fotografica?!

Due nuovi pulcini pentadattili - Una cosa era praticamente scontata: questi due soggetti non presenti tra le mostruosità del genere Gallus descritte da Aldrovandi nel II volume di Ornithologia (1600), riportati invece nell'appendice a Ornithologiae tomus tertius ac postremus (1603), non avrebbero tuttavia trovato altra degna collocazione che a pagina 561 del Monstrorum historia edito postumo nel 1642 da Bartolomeo Ambrosini, dove infatti li troviamo per la seconda volta. Visto che Aldrovandi descrive tra i polli normali un Gallus e una Gallina hirsutis pedibus - pentadattili secondo i canoni della genetica - le cui 5 dita mostruose gli passano però inosservate, se Ambrosini fosse stato scevro da prevenzioni aldrovandogene circa la pentadattilia negli uccelli avrebbe dovuto collocare il primo di questi due pulcini non tra le mostruosità, bensì nei Paralipomena accuratissima historiae omnium animalium (1642) come integrazione di un Gallus et gallina hirsutis pedibus, anche se la pentadattilia di questo primo pulcino ha un fenotipo che forse non è genetico. Ma la pentadattilia a quei tempi era una mostruosità nonostante fosse un fenotipo ricorrente: è lo stesso Ambrosini che a pagina 559 del Monstrorum historia dà la riprova della presenza della pentadattilia nell'Italia del 1624: Posteaquam de multiplicatione digitorum in pedibus Brutorum verba fiunt, non est omittenda observatio pulliceni quinque digitis in utroque pede instructi, quem delineatum in icone xi. damus. Hoc possumus confirmare quadam observatione Clarissimi Liceti, qui retulit, quod anno supra millennium et sexcentesimum vigesimo quarto, Patavii, famula deplumans gallinam reperit quinque digitos in utroque pede cum suis unguibus distinctos. – Ma la genetica, spesso stracolma di fenotipi davvero mostruosi nonché letali, doveva attendere ancora 222 anni per ricevere l'input di Mendel.

 

Era d'uopo chiarire il busillis. Subito mi dissi: qui gatta – stavolta gatta, non gallina – ci cova! Telefono a Padova per avere il testo originale di Ulisse relativo al porfirione contenuto nel III volume di ornitologia (edizione del 1637) che senz'altro come gli altri suoi trattati avrà le intestazioni di pagina assai personalizzate. Da Padova il testo tarda parecchio a giungere, ma per fortuna già da un anno possedevo tutta l'ornitologia di Gessner. Avevo optato per il collega di Zurigo, in quanto essendo Ulisse inaffidabile era inutile oltre che dispendioso procurarsene tutta l'ornitologia. Per di più - mi dissi - Aldrovandi fa il download da Gessner, un download spaventoso come entità e inaccuratezza, per cui io consulto Gessner e morta lì.

In attesa delle prelibate pagine padovane sfodero infatti il testo di Gessner relativo al porfirione e - travestendomi da Sherlock Holmes - mi metto alla caccia di tutti gli indizi che possono aver indotto Aldrovandi a travestirsi prima da Aristotele spurio e poi da Ermolao Barbaro con le pochissime parole "Fra questi uccelli altri se ne trovano che hanno cinque dita, sì come il porphirio, quale ho avuto di Spagna, chiamato in lingua loro telamone."

Ecco cosa dedussi dal testo di Gessner (pag. 687-689) mentre le pagine di Ulisse erano ancora in quel di Padova.

1 – Chi afferma che il porfirione è dotato di 5 dita è uno pseudo Aristotele che ci giunge via Ateneo di Naucrati Dipnosofisti (IX,40,21). Infatti quando il vero Aristotele nelle sue opere biologiche parla del porfirione non sta assolutamente a specificare quante dita possiede, essendo scontato che ne ha 4. Mario Vegetti traduce il porfirione di Aristotele con folaga rossa:

Historia animalium 509a: Pochi non hanno né il gozzo né l’esofago ampio, ma quest’ultimo è assai allungato: è il caso degli uccelli a collo lungo, come la folaga rossa, che quasi senza eccezioni emettono un residuo più liquido degli altri.

De incessu animalium 710a: Negli uccelli poco adatti al volo la coda è inutile (così ad esempio nella folaga rossa, nell’airone e in tutti quelli acquatici), e essi volano distendendo i piedi in luogo della coda, e per dirigere il volo si servono delle zampe invece che di una coda.

Inoltre Aristotele nelle sue opere biologiche non ha mai parlato di uccelli a 5 dita. Tant’è che D’Arcy Wentworth Thompson in A Glossary of Greek Birds (1895) nel citare la pentadattilia riferita da Ateneo – identificabile come frammento 272 di Aristotele – vista la stranezza del dato non può esimersi dal porre un punto interrogativo: pentadaktylós te (?) [...]. E l’attentissimo Filippo Capponi – che non ha mai voluto tradurre Aldrovandi, e adesso ne capisco il perché - nella sua Ornithologia Latina (1979) quando cita il testo di Ateneo relativo al porfirione tralascia addirittura quella strana pentadattilia attribuita ad Aristotele.

Evviva la fantasia di Ateneo! oppure dell’amanuense! Aldrovandi ne approfitta: si cala indietro nei secoli e si traveste da Ateneo aristotelico – o da Aristotele atenaico - pur di possedere un uccello pentadattilo.

Ma c'è di più. Gessner è stato categorico sul fatto che il porfirione ha solo 4 dita. Il 1° novembre 2007 Fernando Civardi ha ultimato una fatica erculea, ma non ritenuta tale dal nostro infaticabile amanuense elettronico: la trascrizione dell'ornitologia di Gessner composta solamente da 779 pagine.

Fernando non ha affatto dimenticato la bufala di Ulisse relativa al porfirione. Così, nel trascrivere pagina 776 dei Paralipomena (παραλειπόμενα =cose tralasciate, restanti, residue, da παρὰ + λείπω = lascio da parte) dedicata appunto al porfirione, Fernando incappa in una puntualizzazione del nostro collega di Zurigo e me la riporta in rosso, qualora mi sfuggisse:

Digitos quaternos tantum pictura ostendit, ita dispositos ut in picorum genere, non quinos, ut veterum quidam scripserunt.

L'immagine mostra soltanto quattro dita, disposte come nei picchi, non cinque, come scrissero alcuni autori antichi.

Gessner aveva ricevuto la raffigurazione del porfirione da Montpellier (dove aveva frequentato i corsi di anatomia umana) e gliel'aveva inviata Iohann Culmann di Göppingen (Baden-Württemberg, 36 km a ESE di Stoccarda - Iohannes Culmannus Goppingensis amicissimus meus pereruditus ac diligens iuvenis). Era un dono che da tempo gli aveva promesso l'insigne ittiologo e anatomista Guillaume Rondelet. Non siamo in grado di recepire se Culmann fu solo il mittente oppure anche l'artefice della raffigurazione. Fatto sta che in effetti le dita di questo uccello sono disposte due in avanti e due indietro come nei picchi (ovviamente non nei picchi tridattili) e la precisione di Gessner non si smentisce nel puntualizzare questo dato anatomico del porfirione che ha davanti agli occhi.

Io non ho mai visto un porfirione dal vivo e neppure imbalsamato, né credo l'avesse mai adocchiato Gessner (avis hactenus nobis ignota est, afferma in apertura a pag. 687). Non solo le raffigurazioni recenti, ma anche quelle dei fotografici acquarellisti di Aldrovandi smentiscono la disposizione delle dita quale è quella esibita dall'immagine di Montpellier. Il porfirione ha tre dita anteriori e solo l'alluce è posteriore. Per cui Gessner è del tutto immune da critiche, non essendo affatto sua l'errata iconografia delle dita di questo porfirione francese.

Chi, come al solito, non è esente da critiche è Ulisse. Infatti il porfirione di Gessner venne pubblicato nel 1555, ben 17 anni prima che Ulisse stilasse il fatidico Discorso. Ma, nonostante fosse così riverente nei confronti di Conrad (tanto da riservargli l'epiteto di Ornithologus per antonomasia), il nostro Ulisse manco s'era degnato di sfogliare, magari di fretta, l'opera del suo Ornithologus fino alle ultime pagine, quelle dei Paralipomena. O, se le ha sfogliate, nello stilare il suo Discorso proprio se ne è strafregato del fatto che il porfirione secondo Conrad avesse categoricamente solo 4 dita.

2 – A quale persona residente in Italia fu inviato un porfirione spagnolo? Dal Discorso sembrerebbe inequivocabile che dalla Spagna qualcuno inviò a Ulisse un esemplare di porfirione vivo o al massimo imbalsamato: "sì come il porphirio, quale ho avuto di Spagna, chiamato in lingua loro telamone." Da notare che chi glielo aveva inviato si era anche premurato di specificare che loro, in Spagna, lo chiamavano telamone.

Che il Porphyrio in Spagna venisse chiamato telamone lo afferma invece Ermolao Barbaro nel capitolo 204 del suo Corollarium in Dioscoridem (1516) e ne dà anche l’etimologia, asserendo pure che ne aveva visti degli esemplari nella campagna padovana importati dalla Spagna. Quindi possiamo affermare senza ombra di dubbio che Aldrovandi – allo scopo di vedere dal vivo un esemplare di Porphyrio - vestì i panni e gli occhi di Ermolao. Non solo, possiamo supporre – ma solo supporre - che magari si recò nella campagna padovana pur di riuscire a vedere un Porphyrio spagnolo vivo e vegeto, che era stato inviato non a lui bensì a qualche committente di Padova. Un vero naturalista deve sempre fornire un riscontro personale di ciò che afferma! Padova non è molto distante da Bologna, per cui Ulisse non poteva esimersi da questa breve escursione naturalistica.

Finalmente da Padova mi giungono le pagine che attendevo, ma ormai con minore impazienza. Gessner aveva già spianato la strada per la verifica del testo di Ulisse. Infatti tutto ciò che abbiamo appena analizzato è presente anche in Aldrovandi, ma di 5 dita nel porfirione coevo suo - non coevo di Aristotele - manco un accenno. E le 5 dita del porfirione pseudo aristotelico vengono doverosamente citate da Ulisse come notizia tramandata da Ateneo.

Che nel frattempo Ulisse si fosse dimenticato del suo porfirione pentadattilo? Oppure: dopo l'approfondita analisi di un porfirione aveva forse assodato che nel XVI secolo questo uccello aveva solo quattro dita? Come si spiega allora l'affermazione della pentadattilia porfirionica nel Discorso naturale? Se quando stilò il Discorso avesse avuto la fortuna di ricevere dalla Spagna un uccello digitalmente mostruoso, l'avrebbe senz'altro segnalato anche nell'apposito capitolo del III volume dell'Ornithologia. Invece qui il porfirione pentadattilo si è letteralmente volatilizzato! Quel birichino di porfirione rivisto e corretto del III volume di ornitologia si regge solo su 4 dita:

Cauda fere caret. Femorum pars, quae nuda est, et praelonga crura, pedesque purpurascunt. Quatuor tantum digitis insistit ex purpureo subalbescentibus. - pagina 438, riga 40

E se le parole di Ulisse non bastassero, anche le immagini sono solo tetradattile. Così come Gessner aveva finalmente ricevuto una raffigurazione del porfirione da Montpellier grazie a Culmannus, altrettanto Aldrovandi aveva ricevuto non due uccelli, ma semplicemente due loro icones da Brancio Mechliniensis.

 

Pollo Sultano di Conrad Gessner 

L’etimologia di Pollo Sultano - inteso come Porphyrio porphyrio - è praticamente equivalente a quella del Pollo Sultano appartenente però al genere Gallus domesticus, cioè quella razza pentadattila dai tarsi impiumati dotata di barba e favoriti. Questa razza veniva chiamata in turco Saray Tavuk, dove Tavuk = gallina e Saray = serraglio, cioè gallina del serraglio, gallina del palazzo del Sultano.

Quasi inutile puntualizzare che nessuna enciclopedia in mio possesso né alcun dizionario etimologico fornisce l’etimologia di Pollo Sultano inteso come Porphyrio porphyrio.

La soluzione dell’enigma la dobbiamo a D’Arcy Wentworth Thompson (A Glossary of Greek Birds, 1895). Quando l’insigne studioso scozzese parla del Porphyrio, a pagina 252 scrive: According to Moreau it is very common in Lower Egypt ‘and well known to the inhabitants by the name of deek sultani, or “royal fowl”.’

In effetti il termine arabo deek significa gallo, quello che fa cicchirichì. Deek è un termine dell’arabo standard, che per esempio si è tramutato nell’arabo tunisino sardook. Sultano è un vocabolo anch’esso di origine araba: sultan = padrone assoluto.

Una precisazione è doverosa al fine di identificare correttamente il Moreau citato da D’Arcy Thompson. In base al web l’unico ornitologo che abbia scritto qualcosa in modo da permettere a D’Arcy di trarre la notizia etimologica relativa a deek sultani fu Henri Moreau, che pubblicò per la prima volta nel 1891 L'amateur d'oiseaux de Volière, espèces indigènes et exotiques, caractères, moeurs et habitudes. Nessuna notizia ulteriore relativa a Henri Moreau.

Un po’ diversa è l’interpretazione etimologica di Georges-Louis Leclerc Buffon, che nella sua Histoire naturelle des oiseaux VIII (1781) a pagina 195 scrive: “Le nom de poule sultane nous en fournit un nouvel exemple: c’est apparemment en trouvant quelque ressemblance avec la poule & cet oiseau de rivage, bien éloigné pourtant du genre gallinacée, & en imaginant un degré de supériorité sur la poule vulgaire, par sa beauté ou par son port, qu’on l’a nommée poule sultane; [...]”.

Personalmente credo di più a Henri Moreau, anche se si tratta di sottigliezze. Infatti il deek sultani è un bel volatile, degno di un sultano, più degno di quanto potesse esserlo un semplice rappresentante del genere Gallus, che tuttavia a Costantinopoli aveva ricevuto praticamente lo stesso epiteto ed era assurto allo stesso rango.

 

    

Pollo Sultano di Ulisse Aldrovandi - Ornitologia del Porphyrio porphyrio - Nei Paesi mediterranei, compresa l'Italia, in particolare Sardegna e Sicilia, vive una della quattro sottospecie mondiali: Porphyrio porphyrio porphyrio. Il pollo sultano è un uccello gruiforme della famiglia Rallidi. Lungo circa 45 cm, possiede un singolarissimo becco alto e depresso, di grandi dimensioni, che spicca per il suo colore rosso; eccezionale altresì lo sviluppo delle zampe e delle dita in particolare. Il piumaggio è di un blu intenso, tranne il sottocoda, che è bianco, e un'ampia placca presente sulla fronte, rossa come il becco. Vive celato nei canneti che orlano le raccolte di acqua, fuggendo al minimo sospetto di pericolo. Si sposta agevolmente e rapidamente tra la densa vegetazione acquatica, ricorrendo piuttosto raramente al nuoto e al volo. Si ciba di vegetali, uova e piccoli di altri uccelli.

Ma c'è ancora qualcosa di interessante nel Discorso, un qualcosa che però ha solo sapore di peccato veniale, non di peccato originale com'è quello che macchia indelebilmente la panzana relativa a un porfirione pentadattilo mai esistito, frutto di un'immaginazione antiscientifica capace oggigiorno di dar vita a una scuola di specializzazione per futuri politicanti, i quali per loro e nostra fortuna  ricevono e riceveranno sempre solo lezioni private, senza così dilapidare il pubblico denaro e senza esporre i docenti al ludibrio della legge.

Questo peccato veniale di Ulisse l'abbiamo commesso tutti, o quasi. E con una frequenza maggiore o minore a seconda delle necessità contingenti.

Ulisse nel Discorso a un certo punto si ringiovanisce.

No, non va dall'estetista. Semplicemente si scrolla qualche anno di dosso.

Ed è questo peccato veniale che mi ha messo in prezioso contatto con Sandra Tugnoli Pattaro.

Giunto estenuato alla fine del prolisso Discorso naturale spero di trovare in calce la data in cui fu stilato. Nulla. Il testo finisce così:

"Con questo facendo fine, in Sua buona gratia humilmente mi raccomando,
desiderandoLe da il Signore Dio lunga et felice vita. Di Bologna."

Beh – mi dico – non è poi tanto difficile sapere quando fu stilato 'sto Discorso.

Se in c. 539r. – a pagina 19 del mio file A4 – Ulisse scrive

"Io, ancorché sia di età di 47 anni, forse, quando piacesse al re di Spagna, per favore o mezo de Nostro Signore, di servise dell'opera mia, forse mi risolverei di pigliare questa faticosa impresa."

allora il conto è presto fatto:

1522+47=1569.

Il Discorso fu stilato nel 1569. Punto e basta.

Invece non basta. Curiosando nel web a caccia di dati mi imbatto in un prezioso lavoro di Andrea Battistini dal titolo Da Aldrovandi a Capellini: quattro secoli di cultura a Bologna (2003) in cui si afferma che il Discorso venne scritto nel 1572. Rifaccio i conti: mi risulta ancora 1569. Allora mi metto in contatto con Battistini, subito esponendo le mie ipotesi sul perché i conti non tornano: il manoscritto del Discorso è alterato per cui 47 è leggibile con difficoltà, oppure si tratta di un errore di trascrizione pur essendo il 47 perfettamente leggibile, oppure, da buon peccatore, ipotizzo che Aldrovandi si sia ringiovanito.

Battistini dichiara  di non avere la competenza per esaurire il mio quesito, per cui da persona seria e affidabile mi mette in contatto con Sandra, la quale avvalla la mia ultima ipotesi rispondendo così con una e-mail del 12 ottobre 2005:

Gentilissimo Dr. Corti,

Condivido pienamente la Sua acribia, che ritengo sia un elemento importantissimo nella ricerca e Le rispondo con piacere.

Quando pubblicai per la prima volta il Discorso naturale di Aldrovandi nel lontano 1981 gli premisi una nota relativa alla data, nota che ho chiesto che venga messa in Internet nel sito Aldrovandi per evitare datazioni estemporanee.

Il Discorso naturale non reca data, ma ho ritenuto di collocarne verosimilmente la stesura tra la fine del 1572 e i primi mesi del 1573 per vari motivi (precisi riferimenti contenuti nel testo), tra cui i principali sono i seguenti.

Giacomo Boncompagni, destinatario del Discorso, divenne castellano di S. Angelo solo dopo l'ascesa del padre al soglio pontificio, ossia dopo il 14 maggio 1572 (Sì: Giacomo Boncompagni era figlio di Gregorio XIII). Del maggio 1572 è pure la "delineatione con la pittura" del "dracone" che Aldrovandi dichiara di aver inviato a mons. S. Sisto, ossia a Filippo Boncompagni (Discorso Naturale, c. 516r; cfr. ms. Aldrov. 3). Aldrovandi dichiara che l'orto botanico pubblico cittadino (che era stato fondato nel 1568) ha 5 anni di vita e di insegnare scienze naturali (la cui cattedra ottenne nel febbraio 1561) da 12 anni (Discorso naturale, cc. 530v, 508v). Infine, Aldrovandi afferma di avere già scritto, ma non ancora dato alle stampe l'Antidotario, che venne pubblicato nel 1574 (Discorso naturale, c. 546v).

Penso che Aldrovandi si sia ringiovanito (dichiara di avere 47 anni! ed era nato nel 1522) volutamente, per non sembrare troppo vecchio qualora fosse stata presa in considerazione la sua richiesta di un sostegno finanziario per una spedizione nelle Americhe capeggiata da lui medesimo.

Oggi a 50 anni si è giovani, all'epoca di Aldrovandi non tanto. E una spedizione nelle Americhe era considerata un'impresa gravosa. Esiste una biografia di Aldrovandi scritta da Giovanni Fantuzzi nel '700 (1774) e reperibile nel sito Ulisse Aldrovandi sotto il Dipartimento di Filosofia, Università di Bologna. Per parte mia ho scritto una biografia intellettuale di Aldrovandi che arriva alla laurea, copre cioè il periodo della sua formazione.

Circa le "menzogne" di Aldrovandi, sono d'accordo con Lei: era un po' bugiardo! ma sono più condiscendente e tollerante rispetto a quelle menzogne pensando al contesto e al tempo in cui visse: da un lato, non c'era quel senso critico nella ricerca che c'è oggi (la scienza era agli esordi e c'era molta ingenuità), dall'altro c'era un problema di opportunità e rispetto nei confronti delle autorità (sia dei testi classici sia dei testi religiosi).

Apprendo, infine, con molto piacere della Sua ricerca sugli studi di Aldrovandi sul pollo, perché la mia ultima pubblicazione su Aldrovandi riguarda proprio le sue ricerche embriologiche sullo sviluppo del feto nell'uovo di gallina, nel quale Aldrovandi si confronta da un lato con le autorità del passato e dall'altro con ciò che l'esperienza gli rivela.

Sono lieta dell'occasione che si è presentata di scambiarci opinioni e di trovare un'altra persona così interessata ad Aldrovandi. Con piacere, se vorrà, Le invierò all'indirizzo che Lei mi dirà alcune mie pubblicazioni sull'autore (la biografia intellettuale e il volume sull'embriologia) e se vuole anche fotocopia della biografia di Fantuzzi.

Cordiali saluti. - Sandra Tugnoli Pattaro

In chiusura voglio proporre anche a voi il commento del mio amanuense elettronico nonché collega Dr Fernando Civardi al quale come al solito ho chiesto di revisionare questa mia indispensabile aggiunta alla biografia di Ulisse. Fernando ha apposto in calce alla mia ricerca una sintesi psicologica che si riaggancia perfettamente a quanto affermai all'inizio: ciascuno di noi si identifica anche dal modo di scrivere. E concordo pienamente con ciò che Fernando mi dice:

Questa lettera della Professoressa Sandra Tugnoli Pattaro mi è molto piaciuta: da essa traspaiono alcune considerazioni riguardanti l’autrice. Il suo modo di esprimersi è molto scorrevole e quindi piacevole da leggere. È una persona serena e molto equilibrata, tende a giustificare, non a condannare, pur condividendo la tua acribia.

Ho riletto più volte il tuo lavoro cercando di smussarne gli spigoli e ho cercato di renderlo più ‘filante’. Ho saltato alcuni paragoni e qualche considerazione che mi sono sembrati inopportuni Spero di non avere urtato la tua suscettibilità, anche se ti sembrerà che così facendo ho annullato un certo tuo sarcasmo. In tale caso scusa il povero amanuense. Le mie osservazioni sono solo un consiglio amichevole.

Cosa farai del tuo lavoro? Lo pubblicherai? Dove? A che pubblico è indirizzato? Trapela da esso un fondo di animosità diretta e anche acrimonia contro il povero Ulisse. Sembra quasi che in epoca idonea lo avresti sfidato a duello. Se per i bolognesi è un’icona, hanno trovato l’iconoclasta!

Milano, 27 febbraio 2006 

Ma a quanto pare per Ulisse il vizietto di ringiovanirsi era, se non innato, perlomeno radicato e ricorrente. Nel febbraio 2007, dedicandomi all'esauriente saggio condotto da Giuseppe Olmi sugli scagnozzi di Ulisse – i suoi frustrati Artisti  scopro che il magnate già si era ringiovanito ricorrendo al figlio Achille, quando costui - nato nel 1560 e morto nel 1577 cadendo da una terrazza - aveva dieci anni. Stavolta Ulisse si era scrollato di dosso non 4, bensì 8 anni!

Ecco l'annotazione di Giuseppe Olmi contenuta in L'inventario del mondo Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna (Società editrice il Mulino Bologna – 1992): [94] Ibidem, cc. 608-609; BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 30v. Abbiamo fissato al 1570 la presenza dell’artista a Bologna, sapendo che il figlio di Aldrovandi, Achille, nato nel 1560, fu ritratto "aetatis decem annorum". È vero che poi il naturalista afferma di essere stato a sua volta ritratto all’età di quaranta anni, cioè, quindi, nel 1562, ma per questa incongruenza esistono valide spiegazioni: o il nostro scienziato, come spesso gli accade, è stato molto impreciso riguardo alla propria età ringiovanendosi, oppure, il che è più probabile, il suo ritratto, e solo questo, fu eseguito durante la visita a Mantova, appunto nel 1562. Conosciuto pertanto il Refati nella sua città natale, Aldrovandi potrebbe poi, più tardi, averlo invitato a Bologna.

 sommario 

 avanti 


Passarotti o Passerotti Bartolomeo: pittore italiano (Bologna 1529-1592). Allievo di Vignola, seguì il maestro a Roma, dove lavorò anche presso Taddeo Zuccari. Tornato a Bologna, vi aprì una scuola famosa che diffuse il michelangiolismo nella regione. Più che alle pale religiose per le chiese bolognesi (Presentazione al Tempio, ora alla Pinacoteca Nazionale di Bologna; Cristo esposto al popolo, S. Maria del Borgo) la sua fama è legata ai bei ritratti realistici (Vecchio, Roma, Galleria Spada) e soprattutto alle opere di genere come la Macelleria e il Mercante di pesce (entrambi a Roma, Galleria Nazionale d'Arte Antica), ricche di notazioni naturalistiche di grande importanza nello sviluppo della “natura morta” italiana e anticipatrici della “riforma” carraccesca.

Pelagi o Palagi Pelagio: pittore, scultore e architetto italiano (Bologna 1775-Torino 1860). Ricevette una prima formazione neoclassica a Roma, dove frequentò l'Accademia di San Luca sotto la guida del Camuccini e dove decorò il palazzo Torlonia e il Quirinale. Trasferitosi a Milano, dipinse quadri di soggetto storico, mitologico, religioso (Sant'Adalgisa dona ai canonici di San Gaudenzio i beni di Cesto, Novara, San Gaudenzio) un po' artificiosi nella ricerca dell'effetto e forzati nei colori. Migliori risultati raggiunse nei ritratti, fra i quali si ricordano il Don Pietro Lattuada (1820, Milano, quadreria dell'Ospedale Maggiore), Paganini (Nervi, Galleria d'Arte Moderna), Ritratto di giovane donna (Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna). Eseguì anche i disegni per il monumento a Vincenzo Monti (Brera), per il palazzo Arese a Milano e per la torre della villa Antona Traversi a Desio. Dal 1836 al 1858, chiamato a Torino dal re Carlo Alberto che lo nominò direttore della scuola di disegno ornamentale dell'Accademia Albertina e architetto di corte del governo sabaudo, fu impegnato in una vasta attività come decoratore dei palazzi reali; eseguì inoltre il monumento al Conte Verde a Torino e progettò la Margheria nel parco del castello reale di Racconigi, sicuramente uno dei primi esempi di architettura neogotica in Italia.

Barbaro Ermolao : studioso italiano (Venezia 1453 o 1454 - Roma 1493). Dopo i primi studi, seguì a Roma le lezioni di latino di Pomponio Leto e quelle di greco di Gaza. Attese agli studi superiori a Padova, dove poi (1475-76) insegnò filosofia interpretando i libri morali di Aristotele. Pochi anni dopo aprì a Venezia una scuola privata, continuandovi le esercitazioni aristoteliche. Alternò il suo famoso magistero con la vita pubblica: svolse missioni diplomatiche presso Federico III, Ludovico Sforza e Innocenzo VIII. Nel 1491, creato patriarca di Aquileia dal papa, fu bandito dalla città dal governo veneziano. Morì di peste. Tradusse dal greco in latino e divulgò Dioscoride, le Paraphrases aristoteliche di Temistio e le opere retoriche e dialettiche di Aristotele. La sua opera di maggior impegno filologico restano le Castigationes Plinianae (1492-93) dove egli fissa ed emenda l'opera di Plinio. In stile elegante e freddo sono redatti l'Epistolario, i Carmi, le Orazioni, il De coelibatu e il De officio legati. Tramite la sua filologia condusse una battaglia filosofica rinnovatrice, polemizzando contro la scuola averroistica padovana che sosteneva la dottrina dell'unità e immortalità dell'intelletto universale, contro Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, mostrando quanto l'interpretazione averroistica divergesse da Aristotele. Gaza Teodoro: umanista bizantino (Salonicco ca. 1400 - San Giovanni di Piro, Salerno, 1475). Sfuggito nel 1429 ai Turchi e venuto in Italia, insegnò greco a Siena, a Ferrara e a Mantova. Passò a Roma al servizio di papa Niccolò V, per il quale tradusse in latino scrittori greci (Teofrasto, varie opere di Aristotele, ecc.). Alla morte di Niccolò V (1455), si stabilì a Napoli alla corte di re Alfonso, che gli assicurò una florida situazione economica. Ottenne infine il beneficio dell'abbazia di San Giovanni. Oltre agli autori già citati, Gaza tradusse Ippocrate, Eliano, Dionigi d'Alicarnasso, Giovanni Crisostomo e dal latino in greco Cicerone; scrisse una Grammatica greca e collaborò all'editio princeps di testi inediti (Aulo Gellio). È autore inoltre di opere storiche, filologiche e antiquarie e di parafrasi di testi omerici.

Impossibile rintracciare Brancio nel web, che verosimilmente era di Mechelen (Belgio, provincia di Anversa).